Non c’è che dire, Stefano: la tua dimensione era la soglia. Molti
nostri discorsi li ricordo proprio sul portone di casa, dopo che mi avevi
riaccompagnato da qualche impegno più o meno importante. Perché, diciamolo, l’impegno
in sé non t’interessava: per te contavano le persone. Io restavo con un piede
dentro e l’altro fuori, mentre tu parlavi, chiedevi, raccontavi al di qua o al
di là del cancellino, fumando la sigaretta. Mi fissavi, indagandomi con il tuo sorriso,
mi parlavi con quella tua leggerissima profondità, cercavi in me le risposte
che credo tu già possedessi, ma su cui volevi la mia opinione. Non era il
possesso esclusivo di una verità, il tuo; era, piuttosto, il desiderio di
condividere un’idea, di confrontarsi su un tuo pensiero. Gli altri spesso non
lo capivano. E come potevano farlo? Tu eri più avanti di tutti, vedevi quello
che gli altri non vedevano: eri un sognatore. Ci ho messo tanto anch’io a ad
accorgermene. In questo forse ci assomigliamo: te lo dico col tuo umile
orgoglio.
Anch’io adesso cammino sul limite, sul cordolo immaginario che separa
il tutto dal nulla, il baratro dalla via maestra. Chissà, l’ho imparato con te:
tu avevi la non comune capacità di radiografare il cuore, di cogliere con uno
sguardo l’essenza di chi ti parlava. Dote rarissima, questa, certamente innata,
figlia di una sensibilità particolare. Non sapevo mai se le cose le buttavi lì,
tanto per dire, o seguivi un tuo disegno che io dovevo a poco a poco scoprire e
seguire. Su quella linea, la tua, ci sono passato pure io con te. Ora ho imparato
la lezione. Eri un eccezionale provocatore, questo te lo devo proprio
riconoscere, e la cosa bella è che ne eri pure compiaciuto. Intendiamoci, un
compiacimento bonario, come quello di chi fa un regalo e non vede l’ora che
l’altro lo scarti e ne sia felice. La cosa buffa, a ripensarci ora, è che eri
tu a dire a me di non essere ironico, di non pretendere dagli altri il
completamento del ragionamento che io lasciavo sospeso, magari nel fare una
battuta, perché non dovevo presupporre in chi mi parlava l’intelligenza o la
velocità di pensiero. Eppure, Stefano, era il tuo stesso modo di procedere. Ci
si era incontrati per via. Non posso più chiedertelo, ma forse parlavi anche a
te stesso. In questo ci intendevamo a meraviglia. Così erano i nostri discorsi,
sul marciapiede davanti casa, a volte a tardissima notte, quando io non vedevo
l’ora di andarmene a letto e tu mi legavi con un barlume di luce o il lampo di
un’intuizione.
Una volta mi dicesti soddisfatto che avevi conosciuto un barbone in
una cantina e che ti aveva raccontato tutta la sua storia. Veniva dall’est, ma
parlava la lingua di tutti. Ne eri affascinato. Ti piaceva il fatto che avesse
attraversato non so quanti Paesi, dopo la caduta del muro, non so quante
condizioni e mestieri, non so quanti amori felici o infelici. Tu lo avevi
conosciuto in una cantina e ti eri fermato a parlare con lui, avevi percepito
il suo bisogno di raccontare la sua umanità. Un’altra soglia, Stefano, quella
della normalità: me la stavi indicando, come il dosso o la buca lungo la strada
oppure gli scalini sotto i portici, chissà, forse perché io vi ci inciampassi e
me ne accorgessi. Mi dicesti anche il suo nome, ma ora non lo ricordo: è
passato troppo tempo e forse non diedi troppo peso a quelle tue parole. Già, lo
so, volevi che scrivessi un testo teatrale su di lui e sulla sua condizione,
perché «siamo tutti barboni», mi ripetevi, «tutti quanti». Me lo hai chiesto
più volte e dovevamo metterci a tavolino per un abbozzo, magari davanti a un
caffè e a un dolce. Tu andavi pazzo per i dolci.
Era l’epoca in cui stavamo leggendo Dante, Leonardo e io, alla biblioteca
di Casalecchio. Il titolo che avevamo dato a quelle letture era, penso che tu
lo ricorderai bene, «Due pazzi all’Inferno». Mi pare fosse il 2015. Tu
c’eri, partecipavi sempre, non mancavi mai; anzi, mi spronavi a quegli eventi.
Non facevi altro che chiedermi di mettermi in gioco, anche se sapevi che non
ero pronto a farlo, magari in quel momento. Mi preparavi, mi allenavi al giorno
della gara: sapevi che sarebbe venuto e che avrei dovuto fare tutto da solo. Quel
giorno è arrivato: ora devo fare tutto da solo, come volevi tu. Eppure, ai barboni tenevi parecchio, già, «perché siamo tutti
barboni, tutti quanti». Non ti ho mai chiesto se la cantina di cui mi avevi
parlato fosse una bettola o uno scantinato vero e proprio. Non importava né a
te né a me. Vi eravate trovati, vi eravate scambiati visioni del mondo
convergenti su quel luogo di nessuno e quindi di tutti. Chissà, tu volevi
salvarlo quel mondo cui correvi incontro sul margine, sul bordo. Su quella
striscia impervia mi sentivo pure io. Nei versi di quello strano personaggio
che mi recitasti e che ho ritrovato fortunosamente, rileggendo i messaggi che
mi avevi inviato per l’occasione, riscopro il senso di quel tuo racconto:
«Le donne scorrono nel mio pianto,
il sole è ombra alla loro luce,
l'amore è buio nei loro cuori.
Amore, se esisti,
cercami
e raccogli ogni lacrima
per tornare a vivere».
Sono versi di un uomo senza nome, senza volto, senza parole. Volevi
dare voce a chi non l’aveva e non l’aveva perché gli era stata tolta. Anche
Savigno per te era così, perché un luogo di confine, di diseredati, in cui lo
spazio e il tempo s’annullano, dove tutto cade e accade per una forza che non è
caso. Savigno era il tuo rifugio: lì tutto era cominciato e lì volevi restare.
Lo capisco bene ora, ora che provo a guardare le cose con i tuoi occhi di
visionario. Quella era la tua vita, quella era la tua casa, il tuo nido. Ogni
tanto me lo ripetevi che «tutti siamo barboni, tutti quanti». Il giornale era
pieno di queste storie da raccontare, di un’umanità da salvare da se stessa. Ti
eri dato questa missione e cercavi qualcuno con cui condividerla. Io non so se
ne sono capace. Qualche cosa intravvedo, ma avrei bisogno del tuo consiglio. So
che mi diresti che il mondo non si è fermato il 22 aprile 2020: c’è ancora
tanto da fare. Mi avresti dato le chiavi della tua macchina per andare, per
andare da solo.
Copyright testi (C) Federico Cinti 2020
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