sabato 30 giugno 2018

Dal Giardino poetico. La fuga di Enea da Troia

Delle armi canto, canto dell'eroe
che navigò per primo dalle spiagge
di Troia fino a giungere in Italia,
profugo per destino, e fino ai lidi
di Lavinia, scagliato qua e là molto
di terra in terra e dal profondo mare
per la violenza degli dei del cielo
a motivo dell'ira sempre memore
di Giunone regina, dea crudele;
anche in guerra patì profondamente
pur di fondare l'Urbe e di portare
gli dei nel Lazio e il popolo da cui
sorgessero i latini, i padri Albani
e le mura così dell'alta Roma.




Nel proemio dell'Eneide si racconta in breve la vicenda dell'eroe, dell'uomo che è costretto dal fato a essere profugo, fuggiasco, fuggitivo: nulla di nuovo, allora, se la guerra da un'età senza tempo, come quella del mito, fino ai nostri giorni, crea vincitori e vinti, crea distruzione e morte, crea ingiustizia e desiderio di vendetta. Ed Enea è profugo, persa la patria per la bramosia del nemico, non accontentatosi di aver conquistato Troia, perché vuole distruggerla dall'alto della rocca fino alle sue fondamenta. Ma Enea tutto sottomette al fato e al volere degli dei: non è Odisseo che viaggia per mare alla scoperta del mondo e di se stesso, ma obbedisce pietosamente al compito che gli è stato assegnato, quello di rifondare Ilio, la superba città dei suoi padri. Tutto sottomette a questa obbedienza, anche l'amore per Didone, regina della nascente Cartagine, donna bellissima di cui si era innamorato e che lo amava profondamente. Enea deve ripartire, abbandonando la sua nuova sposa pur di portare i Penati, gli dei protettori della casa e della patria, nel luogo che il cielo gli indicherà, pur di fondare l'Urbe, la città per eccellenza, la città eterna, pur di generare la stirpe latina i Padri Albani e le mura dell'alta Roma.
Sarà questo l'ultimo viaggio dei miti classici di cui parleremo questa sera al nostro Giardino poetico in via G.C. Abba 6a, alle 18:30 e alle 21:00.


Copyright (C) Federico Cinti 2018
Immagini: Fuga di Enea da Troia, Federico Barocci - 1598 - Galleria Borghese - Roma, Wikipedia; serata al Giardino poetico, venerdì 29/6/2018

venerdì 29 giugno 2018

In anteprima dal Giardino poetico di Federico. Il viaggio di Giasone e gli Argonauti.

Giasone sceglie a uno a uno i suoi
compagni di quel viaggio mai tentato:
sono esseri divini, sono eroi
dallo spirito saldo, intemerato;


osano l’impossibile, solcare
i liquidi sentieri senza fondo
dell’acqua azzurra, del salato mare
che in sé divide i popoli del mondo.


E il passo è breve, il passo è già compiuto
oltre la soglia lucida, è una sfida
ben al di là del limite voluto
dal Padre degli dei, che regge e guida


con eterna giustizia il mondo intero,
perché l’uomo non perda mai se stesso:
Argo fende quel labile sentiero
e Poseidone attonito, perplesso,


guarda l’ombra passare, l’ombra scura
per l’infinita azzurrità del mare
procedere così, senza paura,
andare, andare, senza più pensare


d’avere un freno all’ansia che divora
nel viaggio senza sponda, senza fine,
andare, andare, ancora andare, ancora,

senza più riva, senza più confine.




E così Giasone parte per il viaggio in mare, al di là della linea immaginaria della sponda, oltre il limite fissato dal volere divino attraverso la natura: la sfida è lanciata, il sentiero è aperto, l'uomo è come gli dei. Pallade Atena, dea della ragione e dell'intelligenza, ha aiutato l'equipaggio a realizzare il manufatto, il magnifico ordigno. 
Nulla è più impossibile, dentro e fuori dell'uomo: il passo è ormai compiuto e nulla sarà più come prima, se un prima è esistito nella memoria degli uomini. Così ci racconta il mito, la autorevole storia dei poeti scritta dentro di noi, e il viaggio prende forma quasi inaspettatamente, e non esistono più limiti. Tale è la potente immagine dell'aldiquà e dell'aldilà, per come ce la racconta dante nell'ultimo canto del  suo mirabile "Paradiso" (XXXIII 94-96): «Un punto solo m'è maggior letargo/ che venticinque secoli a la 'mpresa/ che fé Nettuno ammirar l'ombra d'Argo». 
Di questo e altro parleremo oggi, venerdì 29 giugno, al "Giardino poetico", presso il Teatro dei Venticinque, in via Cesare Abba 6a (Bologna), alle 18:30 con i più giovani e alle 21:00 con tutti. Domani, sabato 30 giugno, replichiamo negli stessi orari.

Copyright (C) Federico Cinti 2018
Immagine: Apoteosi della famiglia Medici, Galleria di Luca Giordano, 1682-85, Nettuno e Anfitrite, la nave degli Argonauti.



mercoledì 27 giugno 2018

Invito al Giardino poetico. Le Argonautiche di Federico.

Già a partire dal 29 giugno 2018 che è poi venerdì prossimo, apriamo il nostro "Giardino poetico", presso il Teatro dei Venticinque in via Cesare Abba 6a, alle 18:30 per bimbi/e e ragazzi/e, e alle 21:00 per tutti, con replica il sabato 30 negli stessi orari. La domanda cui cercheremo di dare una risposta nelle nostre conversazioni è semplice, almeno in apparenza: che cos'è il viaggio, oggi che si viaggia per turismo, per lavoro o semplicemente per svago? 
Già, via e viaggio hanno la stessa radice etimologica: potremmo dire che la via diventa viaggio. Ma quando ci è stato raccontato per la prima volta? Il mito è la nostra prima fonte autorevole e l'autorevolezza ci è data da chi ha narrato tali miti, ossia i poeti, gli aedi, i rapsodi, gli ispirati dalle Muse, i depositari della memoria di un popolo, quello degli antichi Greci che, assieme ai Romani, hanno elaborato un modo di vedere e concepire il mondo che è alla base della nostra identità. Viaggio significa andare al di là, oltrepassare i confini, i limiti oltre cui non ci si può spingere. 
E il limite più grande di tutti era il mare, quell'infinita azzurrità che divideva le genti tra loro. divisione, certo, ma anche difesa: chi oltre gli dei poteva valicarlo? Uno dei nomi in greco del mare è "pontos" e quel "pontos" si è fatto "ponte" (etimologicamente sono termini connessi tra loro), quando gli eroi capitanati da Giasone, figlio di Esone, re di Iolco, costruiscono la prima nave, Argo, e infrangono quel limite, per andare in Colchide, una terra lontana e quasi sconosciuta, in cui è nascosto il famoso vello d'oro, la pelle dell'ariete Crisomallo, dono del cielo, dono di Mercurio, il messaggero degli dei. 
Il viaggio e il limite, temi quanto mai attuali in un mondo, quello di oggi, in cui non esistono più limiti accettati, e il viaggio, per molti, è diventata condizione esistenziale, perché non esiste più un centro e una periferia, perché tutto è centro e tutto è periferia. Ecco, ripartiamo dai miti, perché in essi ci pare di ritrovare il DNA del nostro essere uomini e donne di un travagliato Terzo Millennio. Insomma, stiamo viaggiando alla scoperta di noi stessi…
Propongo qui qualche mio verso, tratto da una poesia più lunga, per introdurre i temi che andremo a trattare la prima serata.

Il nostro viaggio narra d’una nave,
la prima nave che ha solcato le onde,
nave che si chiama Argo, in cui una trave
magica parla, interroga, risponde,


trave che Atena, dea della saggezza
ha donato agli eroi per la missione
da compiere tra i Colchi con destrezza
sotto la guida forte di Giasone, 


figlio del re di Iolco, Esone, ucciso
dal fratellastro Pelia brutalmente
per usurparne il trono col sorriso
di chi ha sacrificato un innocente. 


Pelia, quando Giasone torna a Iolco
per domandare quello che gli spetta,

ovviamente persevera nel solco
del male già tracciato e, se anche accetta,

chiede in cambio del regno il vello d’oro,
nascosto nella Colchide lontana,
come un inestimabile tesoro, 

in una selva oscuramente strana.   [...]






Copyright (C) Federico Cinti 2018

Immagine: Dosso Dossi, La partenza degli argonauti, 1520 circa, Wikipedia.



lunedì 25 giugno 2018

Auguri a Chiara

Questo è il tuo giorno, giunto all’improvviso
a illuminare con il suo candore
il grigio di cui tutto sembra intriso
dentro e fuori di noi, simile a un fiore


appena nato, simile al tuo viso
così pulito, pieno di stupore
per l’universo intero, al tuo sorriso
spontaneo, come un guizzo di colore,


Chiara, il tuo giorno è questo, delicato
come solo sei tu, come sarai
nell’infinito tempo che ti è dato,


dovunque sei, dovunque te ne andrai,
perché in te tutto non è mai scontato
e certamente non lo sarà mai.


Casalecchio di Reno (Bologna), 25 giugno 2018

Ma Chiara, oggi è il tuo giorno, il tuo compleanno: ci se ne può dimenticare? Oh, è vero che una volta, quattro anni fa, me ne sono dimenticato, ma che vuoi mai? avevo un impegno improcrastinabile quel giorno. Con la grazia che ti contraddistingue me lo facesti notare e da allora non me ne scordo più, non me ne posso scordare più. Perché, vedi, abbiamo un bel da dire che tutti siamo uguali! Ci sono persone che, pur nell'uguaglianza, meritano molto di più e tu fai parte certamente di tali persone. E io ti voglio augurare il più felice dei compleanni come sono capace, con tutti i limiti del caso, ma almeno questi auguri sono i miei, sono quelli che solo io posso fare e nessun altro. E mi piace pensare a quando abbiamo fatto quel selfie, al bar sotto casa, ché mi eri venuta a salutare per parlarmi dell'associazione di cui fai parte, clown 2.0. Ecco, vedi che hai una sensibilità tutta tua, particolare? E allora oggi è proprio un giorno speciale, perché il tuo compleanno non può certo passare sotto silenzio. Aver avuto la fortuna di conoscerti a scuola mi permette, ora, di festeggiare anche questi momenti. E allora, Chiara, davvero tanti auguri, ma auguri veri, di cuore, come alle persone importanti si devono fare.

Copyright (C) Federico Cinti 2018
Foto di Chiara

domenica 24 giugno 2018

Natività di Giovanni Battista



Testimone incrollabile, profeta
dell’Agnello di Dio, del tuo Signore
fin dal grembo materno, umile asceta
del deserto insondabile del cuore


nell’attesa instancabile, ma lieta,
di pace e verità, battezzatore
per lavare nell’acqua l’ansia inquieta
dell’anima dal vizio, dall’errore,


Giovanni, tu per primo hai salutato
non nato ancora l’unico Messia
del mondo, il Salvatore a noi donato


come luce che illumina la via,
quando pieno di grazia hai sussultato
per Gesù dentro il seno di Maria.


Casalecchio di Reno (Bologna), 
24 giugno 2018


Straordinaria l'immagine evangelica di Maria, in attesa di Gesù, che visita Elisabetta, in attesa di Giovanni, che poi sarà chiamato il Battista (o meglio il Battezzatore): al di là di tutti i riferimenti veterotestamentari, che pure esistono e meriterebbero debiti approfondimenti, mi colpisce il fatto che Maria è il primo e reale tabernacolo della storia cui Giovanni, dal grembo della madre, rende onore sussultando di gioia. La traduzione latina della "Vulgata" usa il verbo «exultavit» per dire «sussultò», ma a me piace anche pensare che sia un sussulto d'esultanza. Già, perché il piccolo Giovanni, non nato ancora, l'ultimo dei profeti in tal senso, saluta e tributa onore al figlio dell'Altissimo che incontra per la prima volta. Lo rincontrerà poi sulle rive del Giordano quando lo battezza, pur controvoglia, assistendo al miracolo dello Spirito Santo che scende su di lui sotto forma di colomba e della voce del Padre che afferma: «Questi è il mio Figlio prediletto: in lui ho posto il mio compiacimento». Giovanni è il testimone fedele di quest'azione di grazia, di questa manifestazione della Trinità e la sua festa ci ricorda che l'unico modo per trovare il Signore è farsi piccoli, nel proprio silenzio interiore, e operatori di pace, per riconoscersi bisognosi del vero bene che guida e governa la storia degli uomini, spesso ancora smarriti nel deserto. Ma è proprio nel deserto che s'incontra Dio.

Copyright (C) Federico Cinti 2018



    
Immagini:
1) Statua di Giovanni Battista nella chiesa della Madonna del Buon Consiglio a Castenaso (BO). San Giovanni è il patrono di Castenaso.
2) Il fiume Giordano, foto tratta dal viaggio della parrocchia di Castenaso in Terra Santa dell'agosto 2016 con don Giancarlo Leonardi.
3) La nuova chiesa della Madonna del Buon Consiglio di Castenaso; nel ruscello artificiale che scorre dentro e intorno la chiesa è stata portata acqua del Giordano per mantenere il legame spirituale con il fiume in cui Giovanni battezzava.

Foto di VN


venerdì 22 giugno 2018

Un tempo strano

Un tempo strano, questo,
questo di questo giorno,
un tempo cupo, mesto,
grigio nel suo contorno,


un tempo in cui ogni gesto
non è se non ritorno,
fuga di fughe intorno
tra crolli d’un dissesto,


macerie di cemento,
di lacrime versate
dopo che ormai s’è spento


il sole dell’estate
nascosto dietro il vento
tra gocce inaspettate.


Casalecchio di Reno (Bologna), 22 giugno 2018

Mi sentivo già pronto alle giornate calde, quelle giornate che a me piacciono così tanto, perché mi sento davvero bene, in forma, mentre a molti - direi quasi la maggioranza delle persone - danno fastidio, spossano, fiaccano, un po' come diceva Esiodo nelle sue "Opere e i giorni" del periodo in cui Sirio imperversa. Già, Sirio nel mito è una cagnetta, che in latino si dice Canicola, il fedele cane di Orione, che muore nel difendere il suo padrone. L'altra sera, mentre eravamo in strada per Montecorone e Monteombraro, l'amica che guidava si era meravigliata della luminosità d'una stella. E credo che fosse proprio Sirio. Ecco perché poi canicola oggi viene a significare un caldo opprimente, quel caldo che a me non dispiace troppo. Ma niente, quest'anno va così: quest'anno va che oggi è brutto e piove, come da un cielo di cemento in cui, a tratti, si apre qualche sprazzo bianco tra i palazzi di Bologna (e ovviamente di Casalecchio). E un po' di malinconia, è innegabile, un po' di malinconia viene. Ma la malinconia è poi lo scandaglio dell'anima; no, non è la tristezza, ma il sentimento della tristezza, e spesso prende suono di parole, parole poetiche, perché la poesia è il diario dell'anima, è il modo in cui giorno per giorno si esprime il nostro cuore inquieto di vita. Tutto oggi è ridotto a immagini, ma il suono della parola poetica riempie il vuoto concavo di certe strade solitarie, del pomeriggio languido che galleggia nel sole o nella pioggia. Insomma, oggi va un po' così, oggi va che non sembra nemmeno estate, che dicono essere cominciata ieri, eppure è uno dei suoi volti. e noi ne ascoltiamo la voce rauca e sommessa, perché anche questo è poesia.


Copyright (C) Federico Cinti 2018
Foto di VN, via Cartolerie a Bologna







giovedì 21 giugno 2018

Solstizio d'estate

Un filo cilestrino è l’orizzonte
al di là delle case stonacate
di questa valle scura sotto il monte
verde di piante chissà quando nate,

su cui il sole incessante, chiara fonte,
riversa senza fine calde ondate
tra realtà ancora non del tutto pronte
per essere allagate dall’estate,

oggi tornata per antica usanza
a indossare la veste più leggera
dei giorni rarefatti di vacanza,

prima che torni un’altra volta sera
nella remota, grigia lontananza
dell’inverno risorto in primavera.

Casalecchio di Reno (Bologna), 21 giugno 2018


E alla fine è arrivata l'estate, come ci raccontano le cicale sugli alberi inondati di sole, quel sole che oggi pare fermarsi a regalarci più luce e più calore di tutto il resto dell'anno. Non so perché, ma l'estate è proprio un periodo particolare, in cui tutto pare eternarsi come la poesia, come le canzoni che ripetono instancabilmente il loro ritornello. E il sole si è fermato nel solstizio, anche se poi non tutti gli anni è precisamente nello stesso giorno e nella stessa ora. Ma chi se ne importa? I sacerdoti di quella nuova religione che si chiama scienza mi bacchetterebbero, ma sorrido al loro dogmatismo insensato. Oggi io lo vivo così, lo vivo come un momento di rituale fusione con la bellezza del creato. È impercettibile questo passaggio, lo so, non s'avverte che in noi; ma è così lieve lasciarsi accarezzare dal vento caldo, passeggiare tra gli alberi in rigoglio, aspettare l'aria fresca della sera. Non so, è come una musica che si ridesta ogni volta nell'anima. E proprio a proposito di musica, oggi Valentina, alias Satya Gong, mi ha detto di essere andata a suonare il gong a Montecorone, così da far risuonare la voce ancestrale e recondita del proprio essere che abbraccia la natura nel momento in cui il sole si ferma ad ascoltarla perché è davvero magnifico lo sperone su cui sorge Montecorone... l'altra sera ci siamo passati, per andare a cena a Monteombraro (almeno mi pare), vicino a una fonte d'acqua solforosa, e tutti ne lodavano la bellezza e la semplicità. Certo, poi il sole ha ripreso il suo cammino verso la sera fresca e la fulgida notte del cielo.



Copyright (C) Federico Cinti 2018
Foto di VN, vista della vallata da Montecorone di Zocca (Modena); concerto di gong al crepuscolo a Montecorone.




mercoledì 20 giugno 2018

Di quasi estate

Scivola  il  pomeriggio  in  un  momento,
dentro una lieve nuvola inondata
di  sole,  vola  via,  quasi  in  attesa  


di non si sa più che, di qualche evento
simile a una realtà desiderata
nell'anima sognante tutta tesa


a  quanto  esiste,  ma  non  è  presente 
se non in questo tendere incosciente.  


Casalecchio  di  Reno  (Bologna),  20  giugno 2018


Attendo, così, sul confine che oggi prende le fattezze del balcone di casa, in uno dei giorni più lunghi e assolati dell'anno, mentre il pomeriggio immobile galleggia come una nuvola inondata di luce, attendo che si verifichi quel passaggio impercettibile che ci consegna all'estate. Sì, magari astronomicamente non sarà più tanto esatto, ma che m'importa? Camminare sul confine immaginario di un aldiquà e di un aldilà è impagabile, perché dà il senso a tutto quello che facciamo, come la linea d'ombra che ogni tanto siamo chiamati a oltrepassare nella ciclicità delle nostre azioni, anche le più quotidiane, che rimangono sempre e comunque uniche. E io attendo qui, al di qua di quello che si squaderna al di fuori, nel canto delle cicale, così ostinato e così rassicurante. Tutto è pronto, tutto vibra come una corda tesa. E io m'immergo in questo mondo pieno di luce, d'ansia di essere finalmente nella stagione dell'incoscienza e della trasparenza, quasi in un nuovo inizio. E quest'attesa è come il naufragare dell'anima nella vacanza, della mia vacanza.

Copyright testi e foto (C) Federico Cinti 2018

martedì 19 giugno 2018

In cerca d'armonia

Incespico distratto tra grovigli
contorti di vocaboli dal suono
tetro di cupe sillabe, spiragli


ben oltre la realtà priva d’appigli
nella rarefazione in cui non sono
le cose più, vertiginosi sbagli


di senso, di ragione superiore,
fino alla pace autentica del cuore.


Casalecchio di Reno (Bologna), 19 giugno 2018



Lo so, di là da quella eterea cortina che ci circonda, che ci stringe come un abbraccio, esiste l'armonia, la vera armonia, quella che pacifica l'animo. Le parole, alle volte, le parole dico che usiamo in modo distratto e superficiale, sono come tanti macigni che appesantiscono il nostro cammino alla ricerca di quell'armonia di cui tanto si sente il bisogno, perché è pace interiore. E allora ho il desiderio di liberarmi da quei contorcimenti mentali che sono le parole e i discorsi astrusi che io stesso intesso. Anche la poesia deve essere così, libera dagli orpelli di una costruzione faticosa e tortuosa solo per dimostrare che si è sfogliato il vocabolario alla ricerca di termini desueti. La poesia è un'altra cosa: la poesia è come la vita; anzi, la poesia è la vita e deve parlare di noi come noi parliamo a chi ci legge o ci ascolta. Ecco l'armonia vera, ecco il logos che squarcia le tenebre della nostra comprensione nel mistero del mondo. E non c'è un aldiquà e un aldilà: tutto è stretto in una misteriosa armonia. il limite lo fissiamo noi, con le nostre false certezze, con la pervicacia con cui ci ostiniamo a crederci autosufficienti. Ecco, l'armonia che voglio per me è amare e sentirmi amato per quel che sono, non per quello che voglio o devo apparire. La via di fuga c'è: in noi va aperto il varco della libertà che ci è stata donata.

Copyright (C) Federico Cinti 2018
Immagine: Photo by Ales Krivec on Unsplash

lunedì 18 giugno 2018

Naufragio

Un abbraccio mi cinge, mi riceve
mentre il tempo ha cessato di passare
e nulla esiste più di ciò che è stato:

mi sento in questa sospensione lieve
allagarmisi dentro come un mare
d’emozioni in un gorgo sconfinato,

libero infine, libero, lontano
preso così da te, preso per mano.

Casalecchio di Reno (Bologna), 
26 settembre 2017







Sentirsi il cuore sopraffatto da un sentimento nuovo, senz'argini né sponde, simile all'infinita azzurrità del mare che avvolge come un abbraccio chi, per ventura si profonda in esso, è una sensazione molto strana, anche se non certo inusuale, perché finalmente ci si sente ricolmi di qualche cosa di grande, che riempie il vuoto che il desiderio di tante piccole realtà misere e limitate ci danno. Ecco, questo è l'amore, in cui alle volte si naufraga per sovrabbondanza di emozione, quando finalmente si ricompone l'unità di cui parla Platone nel "Simposio", perché Amore è figlio di Penìa, Mancanza. E la nave viaggia per il mare, simbolo da sempre dell'infinito, perché è «lo gran mar de l'essere» come dice Dante (Par. I 115) a racchiudere in sé tutto il mondo creato, viaggia alla scoperta di quel che non sa, di quel che non ha, infrangendo il limite imposto dalla sua natura di essere terrestre (in latino, tra l'altro, "homo", 'uomo', è legato etimologicamente alla "humus", 'terra') per divenire navigatore, tanto fuori quanto dentro di sé, perché non esiste viaggio che non abbia una ricaduta nell'animo del viaggiatore, fino a farlo cambiare. 
Ecco, il viaggio per nave rompe un equilibrio e il mare, che in greco si chiama anche "pontos", diventa ponte, elemento di comunicazione tra mondi prima separati e inaccessibili. Ci si trova di fronte a una sfida contro il limite. 
Ed è quello che vorrei illustrare nel mio "Giardino poetico", alla fine di giugno: la via che diventa viaggio, la strada che si fa ragione di vita e di scoperta, di infrazione e di ricomposizione. E naufrago nell'amore più dolce e più vero, di cui spero di parlare presto e più compiutamente.

Copyright (C) Federico Cinti 2018
Foto di EN, il Mar Egeo con il Monte Athos sullo sfondo

domenica 17 giugno 2018

Nell'undicesima domenica del tempo ordinario

Nel campo il seme piccolo del regno
è già stato gettato con amore
generoso per dare un frutto degno
all’opera del buon Seminatore,

perché si coltivasse con impegno
instancabile sempre, a tutte le ore
del giorno e della notte, col sostegno
paziente di Gesù, nostro Signore,


e il regno è già tra noi, già costruito
dal pane della vita, dall’ascolto
della parola di chi ci ha voluto


con sé, di chi ci mostra il proprio volto
nel prossimo, donandoci il suo aiuto,
in attesa di mietere il raccolto.


Casalecchio di Reno (Bologna), 
17 giugno 2018


Il campo, il seme, il Seminatore sono gli elementi essenziali di una verità che si svela in modo semplice, ma non banale, evidente, ma non immediatamente comprensibile, anche perché Gesù decide di esprimere tale verità inoppugnabile in parabole, come aveva profetizzato il salmo: «Aprirò la mia bocca in parabole, /rievocherò gli arcani dei tempi antichi» (Sal 78,2). La verità di cui il Signore ci parla è il regno, il suo regno, quello che, ogni volta che recitiamo il «Padre nostro» chiediamo che si compia: «venga il tuo regno». Ed esso è già qui, perché il Seminatore vero e buono è proprio Gesù, che pianta nel profondo di ogni uomo il più piccolo dei semi, perché fruttifichi, è il Cristo, che si pone come il seme della vita nel mondo, proprio perché il mondo non si perda o non si smarrisca. E da quel piccolo seme nasce qualche cosa di grande, una grande messe, un enorme raccolto, che già biondeggia, per cui noi uomini, operai di quella messe, dobbiamo cooperare (cfr. Gv 5, 35-38). A dirla tutta, non c'è molto da aggiungere alle parole di Gesù, se non che dobbiamo impegnarci perché il suo regno diventi sempre più aperto e disponibile a tutti, certo tra le difficoltà quotidiane, ma nella consapevolezza che non siamo soli. Il Signore non sottrae nulla, tempo, forza, soddisfazioni, ma aggiunge solo, dà cento volte di più oltre alla vita eterna che già è iniziata qui, su questa terra, nel suo regno. Il resto è superfluo e viene dal maligno.

Copyright (C) Federico Cinti 2018
Immagine: Brooklyn Museum - The Sower (Le semeur) - James Tissot - overall, Wikipedia

venerdì 15 giugno 2018

Saluti alla mia 5 BU. Un ricordo

E poi piccolo piccolo diventa
il cuore nel voltarsi di sfuggita
a riguardare l’aula adesso spenta
di voci, di sorrisi, in cui la vita


ci è trascorsa impalpabile, contenta
di poco, di una briciola smarrita
nell’anima, caduta lenta lenta
chissà da dove, un filo tra le dita


che non si spezza, eppure s’assottiglia
pian piano tra le pieghe di un contorno
labile di una triste meraviglia


senza partenza, senza più ritorno,
finito il viaggio dopo miglia e miglia
insieme da quel nostro primo giorno.


Casalecchio di Reno (Bologna), 10 giugno 2017



Non mi pare vero: un anno, un anno tutto intero è già volato via. E dire che non sono uno troppo... no, qui la sto dicendo grossa: sono un tipo un po' malinconico, sì, e il cuore mi si fa piccolo piccolo a voltarmi indietro. Eppure ogni tanto, per forza (o per fortuna), lo faccio, soprattutto in periodi come questo, periodi in cui la scuola finisce e le aule restano vuote, le aule in cui si è vissuti per anni con ragazzi che sono diventati uomini e donne. Certo, non amo troppo la scuola della burocrazia, delle riunioni, dei colleghi; ma quella dei rapporti umani, dei riti e della crescita insieme sì, quella davvero è un dono prezioso che non si può descrivere. Eppure è già passato un anno da quando abbiamo fatto la cena di classe con la mia quinta dell'anno scorso. E non ho molto da dire, salvo che avrei tanta voglia di ritornare indietro per restare un po' con loro a parlare di letteratura, per andare al bar ore ore e ore o in gita. E qui la smetto, ché devo scappare, altrimenti l'emozione finirà per sopraffarmi.

Copyright (C) Federico Cinti 2018
Immagine: Photo by Nam Hoang on Unsplash

giovedì 14 giugno 2018

La tua voce

Una voce mi è dolce unicamente,
quella che ascolto al chiaro della luna,
quando intorno null’altro più si sente
su questa terra fattasi ormai bruna,


una voce mi dice assai suadente
cose che non mi ha detto mai nessuna,
quella che mi sussurra pure assente
all’anima rapita, una voce, una,


la tua, lo sai, che è musica, armonia
d’un sogno tra le nuvole sospesa
più bella d’ogni umana melodia,


la tua, mai udita prima, mai intesa
tra il quotidiano correre per via,
la tua, sempre d’amore così accesa.


Casalecchio di Reno (Bologna), 14 giugno2018



Dentro o fuori di me, quando cammino, quando resto seduto o non ci penso, sento una voce dolce, come musica dell'anima e nell'anima, una voce che sussurra ineffabili parole. E mi lascio cullare da quel suono così suadente, lieve come una carezza, fresco come l'aria della sera in un torrido giorno estivo. E il mio cuore s'allaga d'armonia, colmo di tutto quello che desidera, pieno di ciò che solo può riempirlo. E questa voce scava, sempre di più fa breccia nel mio essere, nel mio profondo, simile a un'eco sentita in un'inafferrabile lontananza, eppure viva e presente. È la voce d'un tu che finalmente ti completa, che dà sostanza a chi veramente sei, a chi veramente è. E si può dire noi, uno nell'altra, senza più bisogno se non di restare assieme, come davanti alla luna che illumina una notte placida e tranquilla, come nelle poesie dei poeti, così assorta e pensosa. E la voce è in quel noi, quella voce siamo noi, di fronte al mondo, di fronte all'universo che si fa piccolo davanti al senso vero delle cose. E la voce sei tu, sono io, anzi noi.

Copyright (C) Federico Cinti 2018
Immagine: Photo by Arnau Soler on Unsplash

mercoledì 13 giugno 2018

A Sant'Antonio da Padova

Instancabile araldo del Signore
nel predicare senza cedimento
il nome di Gesù, del Salvatore,
fino all’ultimo, flebile momento


sulla terra, Evangelico Dottore
nell’esegesi, arca del testamento,
obbediente, mite e umile di cuore,
stabile e lieto in Cristo in ogni evento,


Antonio, sei il riparo e la difesa
dei poveri che invocano il tuo aiuto
in questa vita troppe volte offesa,


fulgido esempio, dono ricevuto
per rendere più splendida la Chiesa,
ora che vivi in Dio, nell’assoluto.


Casalecchio di Reno (Bologna), 13 giugno 2018


Il ricordo, nel giorno del passaggio da questo mondo al Paradiso, della figura esemplare di un santo come Antonio di Padova è una festa grande per tutta la Chiesa, perché si può onorare la memoria di un modello, d'un esempio di vita veramente spesa al servizio di Cristo e dei fratelli. Non importa quanti anni si sia rimasti qui, su questa terra, per conformarsi a Gesù: Antonio, infatti è vissuto solo trentasei anni. Non importa la durata, ma la qualità della propria esistenza, perché essa è il dono più prezioso che abbiamo e che nessuno dovrebbe avere la pretesa di poter distruggere o annullare. Antonio ha esercitato la sua missione predicando incessantemente, difendendo i più deboli e i più poveri della storia, confessando senza mai sentirsi stanco, anche in punto di morte. Antonio è il santo della purezza e dell'umiltà e difatti lo si rappresenta, spesso, con il giglio i mano, simbolo di candore e limpidezza spirituale. Ed è bello sapere che la città in cui, a un certo punto della sua vita, ha preso dimora, Padova, anche se egli era originario di Lisbona, gli tributa ogni anno da quel lontano 1231 una festa grandiosa. Ricordare queste figure esemplari significa, in fondo, riconoscere la piena e viva comunione dei santi con la Chiesa pellegrina in questo mondo. E io mi sento veramente in buona compagnia.

Copyright (C) Federico Cinti 2018
Immagine: Guercino, Sant'Antonio da Padova con Gesù bambino, 1656, Wikipedia

Lo specchio di Narciso

Lo specchio, sì, lo specchio mi ossessiona: mi ci trovo immerso senza nemmeno accorgermene, ci sono dentro come se io vi fossi imprigionato, alla rovescia. Eppure è un'azione banale quella di guardarsi, pettinarsi, farsi la barba, almeno per chi ci vede. Ora non mi vedo più, ma lo specchio mi riflette lo stesso, imprigiona la mia immagine anche senza il mio consenso, a mia insaputa. Lo specchio, accidenti, è simile a una gabbia priva di sbarre, priva di catene, circondata dai suoi angusti limiti da cui, a un certo punto, si scompare impercettibilmente. I limiti, ecco, un'altra delle mie ossessioni: i limiti del nostro io riflessi nello specchio, una superficie, un sipario che sembra non esistere eppure c'è, è lì, ci separa, ci divide, ci attrae e ci inganna, con la sua anima - posso chiamarla così? - d'argento, proprio come canta acutamente Ovidio, nelle sue "Metamorfosi" (libro III), quando dice che Narciso s'avvicina a una fonte purissima, di cristallo, dalle acque argentee. Già, probabilmente anch'egli pensava allo specchio. Certo, uno specchio d'acque, ma pur sempre uno specchio, anche perché la metafora apre arcani mondi mettendoli in correlazione tra loro. E Narciso si riposa, dopo un giorno di caccia, ignaro della profezia del veggente Tiresia, secondo cui Narciso sarebbe sopravvissuto finché non avesse conosciuto se stesso. Ma che significa, poi, conoscere se stesso? E Narciso, per l'arsura e la fatica d'un giorno estivo, si protende all'acqua viva per bere, mentre un'altra sete comincia a divorarlo, la sete dell'amore per la creatura che vede e non conosce, la creatura più bella che egli abbia mai visto da quando è nato. Tutto quello che l'immagine di fronte a lui fa assomiglia a ciò che fa lui: ride, piange, lo bacia, lo abbraccia, ma tutto è illusorio, tutto è riflesso. Ma poi capisce, capisce d'essere lui il soggetto e l'oggetto  dell'amore, chi guarda e chi è guardato, chi brucia ed è bruciato. E così si genera il dramma: non esiste altro che un'immagine di noi stessi che non esiste, perché la vediamo solo noi. E l'acqua scorre liquida, come i cristalli liquidi del display del nostro cellulare, quel piccolo specchio in cui si riflette tutto il mondo globalizzato, e pure noi stessi, e in cui rischiamo d'annegare come Narciso, smarrendoci (o perdendoci) per sempre. Soprattutto nel mondo delle immagini, di Facebook, rischiamo di essere ammaliati nel nostro viaggio attraverso uno specchio d'acqua che ci trascina lungo la corrente senza che noi opponiamo resistenza, come tanti ignari navigatori che seguono il canto delle Sirene che il solo Ulisse riuscì ad ascoltare senza morire, perché è la poesia che lo salva, è il mito che parla di lui, come tutti i classici parlano a noi di noi. E Narciso ci indica la via d'un viaggio all'interno di quello specchio, ma è un viaggio senza ritorno tra le onde di un mare senza limiti e senza sponde. Il nostro mare, oggi, sono i cristalli liquidi che anestetizzano la nostra coscienza, facendoci credere che il reale non esista, perché è solo una proiezione del modo in cui noi vediamo le cose. Ma il mondo c'è, è vero e tangibile, la natura ci avvolge e ci sostiene, anche se noi non vogliamo. E Narciso ci ammonisce nell'abuso dello specchio virtuale, perché oggi non c'è più metamorfosi, mutamento, ma c'è solo annullamento.


LO SPECCHIO DI NARCISO
(Ovidio, Metam. III, 407-475)


Là c’è una fonte limpida dalle onde
lucide come argento tra le sponde


pastore o capra al pascolo sui monti
impervi mai la tocca o le fa affronti,


né altro bestiame o uccello o una smarrita
fiera per caso mai l’ha intorbidita,


neppure un ramo pendulo caduto
da un albero che appresso le è cresciuto. 


Quell’acqua pura nutre intorno un prato
e il luogo è fresco, ombroso, riparato


da un fitto bosco in cui furtivo il sole
non filtra mai, nemmeno se lo vuole.


Fiaccato dalla caccia e dall’arsura
di quel giorno tremendo di calura,


Narciso giunge lì, si sdraia in fretta
per riposarsi un poco sull’erbetta,


e si sente ammaliato dalla fonte
d’acqua corrente che gli sta di fronte.


Mentre placa la sete, un’altra sete
nasce in lui sulle onde così quiete


in cui vede un’immagine riflessa
ed estasiato s’innamora d’essa.


Egli ama una bellezza immaginaria
che non ha corpo, umbratile, precaria.


Fissa se stesso attonito in istanti
eterni, fissa chi gli sta davanti,


fissa se stesso sempre, all’infinito,
come una statua, immobile, impietrito.


Disteso a terra fissa il luccicare
dei suoi begli occhi, come stelle rare,


fissa i capelli suoi, degni d’Apollo,
degni di Bacco, fissa il proprio collo


candido come avorio, fissa ancora
le guance lisce, il viso che innamora,


la bocca, il rosa sul suo bel candore
soffuso, lieve, somigliante a un fiore,


e di sé tutto vuole, tutto brama,
tutto, in una parola, tutto egli ama.


Ama, eppure non sa, ama se stesso,
ama come mai prima, si ama adesso.


Ama ed è amato, brucia ed è bruciato,
desidera e così è desiderato.


E bacia quella labile finzione,
abbraccia quella limpida illusione,


ignora quel che vede, e questo  è il dramma,
che quel che vede labile lo infiamma.


L’illusione lo affascina, gli inganna
gli occhi, il cuore, e l’illudersi lo danna.


Vuoi afferrare quel che fugge, stolto,
quel che ami, se ti volti, è già dissolto,


vedi dentro uno specchio il tuo riflesso,
venne con te, con lui vai via tu stesso.


Né il bisogno di cibo o di riposo
lo fa meno di sé desideroso.


Sdraiato all’ombra fissa la bellezza
che continua a ingannarlo con dolcezza,


vittima dei suoi occhi innamorati
come mai prima, pure se ingannati.


Poi si rialza il povero infelice
e tendendo le braccia al bosco dice:


«Esiste, selve, amante che ha sofferto
di me più crudelmente? Voi di certo


lo sapete, che date senza indugio
a tanti un po’ di tregua e di rifugio.


Chi si è ridotto a tanto struggimento
simile adesso a me, che vivo a stento?


Io lo vedo e mi piace, e più mi piace
e meno lo raggiungo e perdo pace. 


Mi confonde a tal punto questo amore
che sempre più s’accresce il mio dolore,


perché non ci divide terra o mare,
città, bastioni e porte, ma acque chiare!


Lui vorrebbe donarsi, è pronto a farlo,
quando all’acqua m’accosto per baciarlo,


quando allo specchio tendo la mia bocca,
s’accosta pure lui, quasi mi tocca.


Potrei toccarti: un nulla qui davanti
infrange il desiderio di due amanti!


Chiunque tu sia, fanciullo senza eguali,
non illudermi più: so quanto vali!


Rimani qui con me, non mi fuggire,
unico amore mio, o potrei morire.


Dimmi in quali recessi, in quali mondi,
quando vengo a cercarti, ti nascondi.


Perché scompari, quando ti rimiro,
come il labile soffio d’un respiro?


Sono giovane e bello anch’io, lo sai,
e di me molte ninfe innamorai,


senza dar loro un filo di speranza
tant’era tra di noi la lontananza.


ma tu mi doni un segno, un segno amico,
così che spero in me quel che non dico;


quando tendo le braccia, in quel momento,
le tendi pure tu con sentimento;


quando poi ti sorrido, all’improvviso
il tuo volto lampeggia d’un sorriso;


pure tu hai pianto, quando hai visto, un giorno,
che anch’io spandevo lacrime dintorno;


E ti parlo, e mi parli, e la tua voce
rimbomba in me come un silenzio atroce.


Ho capito, purtroppo, ho realizzato
che di me, di me sono innamorato:


su questo specchio d’acqua sta riflesso
l’immagine soltanto di me stesso.


Amo me stesso e da me sono amato,
brucio per me e da me sono bruciato.


Che cosa fare? Imploro? E poi che imploro?
È in me quello che cerco, quel tesoro


che desidero e bramo solamente,
ma che pure sa rendermi impotente.


Se potessi staccarmi da me stesso,
da questo corpo vero qui riflesso.


Voto inaudito, questo, per gli amanti:
stare senza chi si ama e sta davanti.


Non ho più forze, adesso, ora la morte
a me aprirà benigna le sue porte,


mi toglierà per sempre il mio dolore,
nato dal seme nobile d’amore.


Solo vorrei che lui potesse ancora
vivere fino all’ultima sua ora,


anche se siamo uniti, stretti insieme
e moriremo, mentre il cuore geme,


perché uno solo è il battere, uno solo
l’amore che ci spinge a questo volo».


Così dice, poi torna a rimirare
quella bellezza che non può toccare,


e piange, e quell’immagine va via
senza di sé lasciare alcuna scia.






Copyright testo e traduzione (C) Federico Cinti
Immagine: Michelangelo Merisi da Caravaggio, Narciso (1594-1596). Roma, Galleria nazionale d'arte antica. Wikipedia

lunedì 11 giugno 2018

La mattinata al bar

Si ferma il tempo al bar, indugia l'ora
dimentica di sé: fuori la vita
brulica d'ansia greve che divora
la via smarrita


tra impegni altrui, in giornate troppo corte
per resistere all'ultimo minuto
del presente, tra mille anime assorte
dopo il saluto


nel ricurvo silenzio, nello spazio
oltre di chi, ormai privo delle sue ali,
vuole volare via, forse già sazio
di cose uguali


sempre a se stesse. Al bar l'aria è leggera,
simile a un dolce balsamo, risana
lo spirito in attesa della sera
rosea, lontana


dalla notte più torbida, accarezza
tra mille, quasi inutili discorsi
buttati là per sbaglio, ogni altra asprezza,
senza rimorsi.


Casalecchio di Reno (Bologna), 11 giugno 2018


Dell'abitudine inveterata che, a poco a poco, diventa rito, no, non se ne può proprio fare a meno, e intendo quello di andare al bar. Certo, durante l'anno, quando si va a scuola presto, tutto diventa più macchinoso... non direi difficile, perché ogni difficoltà poi si supera agevolmente, ma macchinoso sì: il freddo, le angustie dei tavolini l'uno messo di fianco all'altro, il via vai continuo. Quando però viene la bella stagione, starsene al di fuori, tra un sipario di verdi piante tutt'intorno è impagabile. Noi ci si va sul prestino, ma anche questa è ovviamente un'abitudine tutta nostra, e così vediamo arrivare tutte le persone che conosciamo, con cui possiamo fare due chiacchiere (o anche tre o quattro). Alle volte si discute quel che c'è scritto sul "Carlino"... sì, non sarà un gran giornale, come dicono gli intellettuali che si danno un tono, ma a me piace molto, anche perché c'è tutta la cronaca di Bologna e dintorni. E poi il caffè, il rito del caffè, quello buono, dall'aroma intenso. Insomma, a per me un che di metafisico. E a quanto pare non solo per me, perché la gente è sempre molta. D'estate si va preferibilmente da Enza, al Bar Latteria Giorgio, alla croce, perché abbiamo fatto il nido lì. La mattinata corre subito, va via con una leggerezza estrema, anche se l'ora pare ferma, immobile. Già, è l'incantesimo del bar, dello spazio aperto sotto il portico come un abbraccio aperto all'accoglienza. Al bar s'impara un po' tutto, anche quello che non si vuole; ma è nelle regole del gioco. E il sole fa capolino tra le tende e gli archi del portico, mentre dietro il cortile aperto sulle case alle volte manda una dolce frescura e un profumo di panni stesi. E a me piace tanto restare lì, anche se apparentemente non si fa nulla di rilevante, perché è semplicemente un modo per cogliere la vita nella sua essenza più semplice e più vera.

Copyright testi e foto (C) Federico Cinti 2018

domenica 10 giugno 2018

Nella decima domenica del tempo ordinario

È il Signore che illumina il sentiero
di chi si affida a lui, di chi ha creduto
di non bastare a sé, di chi è sincero
con sé per quel che ha visto, ha conosciuto,


perché nella sua luce tutto è vero,
tutto risplende come l’ha voluto
creandolo, nell’unico mistero
dell’autentico amore più assoluto,


e così è vinto il diavolo, impotente
davanti alla sua voce, alla sua azione,
alla sua Chiesa, corpo del Vivente,


popolo nuovo, mistica nazione,
sorretta da Gesù, sempre presente
per essa in un’eterna redenzione.


Casalecchio di Reno (Bologna), 10 giugno 2018


Il Signore è venuto a squarciare le tenebre in cui l'uomo si trovava avvolto, perché egli è la luce. E quando il Vangelo racconta i suoi segni, racconta la liberazione da demòni e spiriti immondi, ciò sta a significare che le forze oscure che avvolgono l'uomo fuori e dentro di sé sono definitivamente sconfitte. E nella nostra epoca questa dimensione è quanto mai attuale, perché il nostro è il tempo dell'effimero, che rifugge dalla morte, come se fossimo eterni, ma la va ricercando come via di liberazione dai propri mali. E invece Gesù è il Signore della vita, attuata già qui, in questo mondo, come suo regno.  Quando egli viene crocifisso ed emette lo spirito sulla Chiesa nascente, il velo del tempio si squarcia nel mezzo, perché si possa adorare non solo nel tempio, non solo presso il pozzo di Giacobbe, come credevano i Samaritani, ma in tutto il mondo. Per questo ogni angolo del mondo è stato visitato dalla luce di Cristo, per questo la Chiesa schiaccia col calcagno la testa del tentatore, che fa credere all'uomo di essere autosufficiente, di specchiarsi in se stesso per apparire come Dio, in un nuovo mito narcisistico. Eppure Gesù è più grande di tutto questo e noi possiamo dirci figli della luce, figli dell'amore di Gesù, morto e risorto a vita nuova. Veramente "il Signore è bontà e misericordia", come si canta nel salmo responsoriale della liturgia odierna.

Copyright (C) Federico Cinti 2018
Immagine: Esorcismo nella sinagoga in un affresco dell'undicesimo secolo, Cafarnao, Wikipedia