domenica 26 aprile 2020

Nella terza domenica di Pasqua - Anno A - ( Letture: At 2,14a.22-33; Sal 15; 1 Pt 1,17-21; Lc 24,13-35)

Sono in via due discepoli. Col cuore
triste tornano a Emmaus. Non hanno
più speranza. Lontano dal clamore
della città ormai, parlano e non sanno.

A un tratto accanto a loro sta il Signore,
ma non lo riconoscono. Essi vanno
con lui. Gesù racconta con ardore
di sé. In loro si scioglie ogni altro affanno.

Giunti a sera, non vogliono che vada.
Rimane. Preso in mano il pane e il vino
per la benedizione, si dirada

la nebbia ai loro occhi. Il pellegrino
era Gesù. Riprendono la strada,
a ritroso percorrono il cammino.

Casalecchio di Reno (Bologna), 26 aprile 2020
Un percorso da compiere, una via da percorrere, una delusione da elaborare: si era creduto in lui, in colui che si proclamava il Salvatore, l’Unto del Signore. Promesse, esaltazione, ansia di raggiungere un traguardo grandioso. Nulla. Tutto era finito ai piedi di una croce, infamante patibolo per Gesù Nazareno, Re dei Giudei. Gerusalemme col suo clamore si allontana a poco a poco: la vita deve proseguire. Parlare, ricordare, compiangere i sogni infrantisi: così è per Cleopa e un altro discepolo in cammino verso Emmaus, un villaggio distante soli undici chilometri dalla città. Ma il tempo non passa mai: un peso li affligge. Ed ecco che, parlando di Gesù, un pellegrino si affianca loro, uno straniero che non conosce nulla di ciò che è successo tre giorni prima. Quell’uomo parlava con loro e faceva ardere i loro cuori, rivelando la verità di cui era portatore, spiegando le scritture in cui si profetizzava del Messia morto in croce. Il tempo del viaggio scompare: rinasce nell’anima la speranza sopita. Giunti a Emmaus la sera è con loro, ma il pellegrino deve proseguire il suo cammino; ma i due uomini non vogliono. Quasi sperano che resti con loro a cena, per condividere pure quel momento. Il Signore non sa dire di no a chi lo prega e si ferma. È una cena, un’altra cena come quella con gli Apostoli: Gesù benedice il pane e il vino, li consacra suo corpo e suo sangue, e quello è il momento della grazia, della manifestazione. I due discepoli riconoscono il Risorto che scompare alla loro vista, perché ormai è nel loro cuore e lo vedono con altri occhi. Il ritorno dagli Undici è una corsa leggera: devono annunciare che quello che le donne hanno detto e che Pietro ha visto è vero, è reale. Gesù li ha visitati nel momento di maggior sconforto: parlavano di lui e lui era con loro, perché dove due o tre sono riuniti nel suo nome egli è con loro. Anche quando tutto sembra perduto, anche quando la preghiera sembra inutile, pure quando la speranza è come una candela al crepuscolo, nella sera che incombe, il Signore è il pellegrino che cammina con noi. Se siamo in grado di aprire gli occhi del cuore, se non ci pesa il cammino che dobbiamo compiere, perché in compagnia del Risorto, allora diveniamo annunciatori del regno di Dio già qui tra gli uomini. Dobbiamo avere l’umiltà di chiedere al Risorto che stia con noi, la sera, che spezzi quel pane e versi quel vino, se vogliamo che la nostra vita acquisti un senso, che la nostra strada non sia uno stanco incedere verso il niente. Ogni luogo del mondo è Emmaus, un villaggio su cui cala la sera; ma il Risorto è il Dio-con-noi.

Copyright testi (C) Federico Cinti 2020
Immagine tratta dal web

sabato 25 aprile 2020

Lo sapevamo, Stefano


Lo sapevamo, Stefano:
il tempo non perdona. Un frullo, un battito
lieve d’ala. La pagina
si volta, imperscrutabile silenzio.

Lo sapevamo, Stefano,
ma fingevamo d’essere inscalfibili.
Tu lo eri. Io ancora claudico
più d’un equilibrista in solitudine.

Lo sapevamo, Stefano:
sul ciglio della via non c’è rimedio.
Attendevamo taciti
quell’attimo, incoscienti o inconsapevoli.

Lo sapevamo, Stefano,
ma questo vuoto, credimi, è incolmabile.
Frugo nella memoria,
ma manca un pezzo adesso al mio mosaico.

Lo sapevamo, Stefano,
che non andava bene. I sogni fragili
crollano. In quel tuo ridere
c’era il senso di tutto il nostro vivere.

Lo sapevamo, Stefano,
ma l’ho capito adesso, sulla soglia
che ci separa, linea
senza confine, muto, ultimo transito.

Lo sapevamo, Stefano:
il migliore eri tu. Nel nostro studio
s’era trovato un codice,
un segno tutto nostro per non perderci.

Lo sapevamo, Stefano:
non termina il dialogo, lo scambio
tra noi. Nel mio precario
andare non mi stacco dal tuo braccio.

Casalecchio di Reno (Bologna), 25 aprile 2020 
Non so, Stefano, quando ci siamo conosciuti. Ho l’impressione che ci siamo conosciuti da sempre. La Croce ci ha uniti senza saperlo. E poi il fatto che tu fossi nato proprio dove abito mi è sempre sembrato un segno. Ti conoscevo da sempre, anche se la differenza d’età un po’ mi frenava: tu eri grande per me. Ma l’amicizia non si misura da questo. Ci sono stati anche periodi in cui non ci si è visti per tanto tempo: io ero troppo distratto a inseguire i miei sogni. Poi è successo: ci siamo incrociati di nuovo, trovati come di ritorno da un lungo viaggio, ognuno il suo, ma in fondo uguale per entrambi. Ti ricordo quel giorno al bar, al Caffè Anna. Fumavi con Mauro. Dovrei dire Maurone, considerate le dimensioni. Chissà dove andavo. Venivo a ritrovarti. Parlammo un po’; anzi, un bel po’. Il tempo e la distanza si erano annullate: era come se ci fossimo salutati il giorno prima per rivederci lì. Questo è poi capitato mille altre volte, direi quasi ogni volta, quando per qualche motivo scomparivi o scomparivo io. Era il tempo in cui avevo cercato di dare il mio piccolo contributo al nostro Comune, a Casalecchio. Avevi cercato in ogni modo di mettermi in lista, nella lista in cui tu non eri voluto essere messo, perché ti avevano promesso qualcosa. Promessa vana, come sappiamo; ma la politica è così: tu la facevi per ideale, non per interesse. Anzi, non era nemmeno politica: per te era una missione. Prima delle elezioni presentammo il mio primo libro di poesie, lo Speculum salutis: ti piacque tanto e ne parlavi entusiasta. Ora me ne vergogno un po’, perché sono cambiato molto. Anche io ne ero in fondo soddisfatto. Iniziava così un nuovo viaggio, il nostro viaggio. Avevamo progetti per un’amministrazione migliore, semplicemente a misura del cittadino. Tu eri un visionario. Ecco, mi strideva il fatto di vedere con te che vedevi troppo. Ho sempre pensato che fossimo complementari e in effetti era così. Avevi capito che avevo bisogno di una guida: a te non sfuggiva nulla, perché sapevi leggere nell’animo umano. Mi guardavi, non mi dicevi nulla; facevi una pausa di silenzio, poi guardando avanti mi dicevi ciò che stavo pensando o provando. Era così, tutte le volte. Anche quando abbiamo fatto la campagna elettorale contro tutti, contro quel muro di gomma che si chiama ipocrisia o burocrazia. Io ero impaurito: sai, per me era tutto nuovo. Per te era la vita, la passione, la ragione che ti muoveva. Volevi essere utile e non sai quanto lo sei stato. A me in primis, ma io conto poco nel panorama generale. Con te non avevo paura di nulla, anche quando mi facevi fare ciò che non volevo. Ci stavo male. tu lo sapevi, ma quella era la mia medicina: me lo ripetevi sempre. Dovevo imparare, perché tutti ci siamo passati, tutti hanno avuto paura. Mi hai aiutato a superare tanti ostacoli, tante barriere, tanti muri. Ora ho quasi imparato, ma tu sei partito per un altro viaggio. Ogni tanto sparivi ed è giusto così: io non ho mai indagato tra le tue cose personali, intime. So che prima o poi me le avresti raccontate, se erano da raccontare. Tante cose le ho percepite e tu sapevi che avevo capito. Mi prendevi in giro, certo, ridevi anche, soprattutto quando avevi la certezza che io avessi compreso. Mi hai portato dappertutto. Quando sentivi il mio grido, dicevi, correvi qui: io scendevo fischiando dalle scale, tu eri sotto a fumare l’immancabile sigaretta o a parlare al telefono. Un saluto, quello di sempre. Poi mi dicevi dov’era la macchina e spesso non mi ci accompagnavi. Di solito però sì, questo sì, mi prendevi sotto braccio e mi raccontavi i tuoi progetti. Quanti progetti avevi, Stefano: non lo so dire. ne avevamo anche ultimamente. La scuola doveva cambiare per te e io assieme alla scuola: svecchiare, colmare i fossati, tirare dritto. Gli altri non capivano questo tuo atteggiamento. Io sì. E lo condivido. So che «avevamo studiato per l’aldilà / un fischio, un segno di riconoscimento». In fondo siamo uguali: per questo ci siamo trovati e voluti bene. Ora che sei partito per questo viaggio senza nemmeno salutarmi, credimi, non me ne faccio un cruccio: tu sei fatto così. Ma quel «segno di riconoscimento» io provo a modularlo, perché sono convinto che tu sei ancora qui. In questi giorni non ho fatto altro che parlare di te con gli amici: era un modo per esorcizzare la dipartita. Poi giungerà il tempo del silenzio, come facevi tu, prima di dire la verità sulle cose. Io l’ho imparato e il mio dialogo con te non è finito, non finirà mai. Tu sei sempre con me, Stefano. 
Copyright testi (C) Federico Cinti 2020

immagine da " il Resto del Carlino" 

mercoledì 22 aprile 2020

Arrivederci, Stefano, amico mio

E a un tratto il gelo. Il nulla intorno. Inutile
il chiarore d'aprile. Un'ombra cupa
scende sul cuore, eco lontana spentasi
in un tonfo improvviso. La tua voce

io la sento in me, adesso, solitudine
fragile. Tu mi davi sicurezza.
Più d'un amico: eri un fratello, Stefano.
La via è lunga. Volevi che io facessi

da solo, senza aiuti. Ora le lacrime,
il vuoto, il nulla intorno che hai lasciato.
Mi resta il tuo sorriso, l'amicizia
che ci legava. Non ne so il motivo.

Forse l'affinità, forse quell'essere
tutto per tutti, eterna comunione
d'intenti. Eppure, ti risento ridere
e sorridere. Il tempo s'è fermato.

Ti sento ancora accanto. Nel silenzio
cerco la tua ironia, carezza greve
su quelle mie certezze così piccole.
Scioglievi ogni mio dubbio. Resto solo,

come volevi, a fare tutto, Stefano.
Al di là del confine, oltre la soglia
so che mi ascolti, che ti allunghi a tendermi
la mano. Proverò. Non è l'addio

cantato dai poeti. La mestizia
non è cosa per te. Tu non sai quanto
mi hai donato. Ora, Stefano, il mio grazie
pieno di niente, stanco arrivederci.

Casalecchio di Reno (Bologna), 22 aprile 2020
 
Copyright testi e immagine (C) Federico Cinti 2020

domenica 19 aprile 2020

Nella Seconda Domenica di Pasqua - Anno A - ( Letture: At 2,42-47; Sal 117; 1 Pt 1, 3-9; Gv 20, 19-31)

Il giorno dopo il sabato, la sera, 
Gesù appare tra i suoi, dà la sua pace,
dona loro il suo Spirito. Sincera
commozione nel cuore, ora capace

di capire: la sua è presenza vera.
Manca Tommaso, Didimo, incapace
di credere al momento in cui non c’era:
il suo cuore nell’ombra ancora tace.

Dopo otto giorni è ancora in mezzo a loro
Gesù. Stavolta anche Tommaso vede
le piaghe, mette il dito in ogni foro.

Chiede perdono. A ciò che vede crede.
Cristo gli dice: «Beati coloro
che, pure non vedendo, avranno fede».

Casalecchio di Reno (Bologna), 19 aprile 2020
Nella dominica in albis (depositis), quella in cui nei primi secoli dell’era cristiana i battezzati deponevano le vesti bianche del lavacro battesimale, simbolo di una vita nuova, perché rigenerata in Cristo, la liturgia ripropone il ricordo della sera del primo giorno dopo il sabato. Per noi oggi è ovvio dire domenica e quasi abbiamo perso il senso di quel nome, ma è il giorno del Signore, dies Dominica: mentre gli Ebrei celebrano il sabato come giorno del riposo del Creatore, noi cristiani celebriamo il giorno in cui il Signore è risorto e ha sconfitto la morte in un prodigioso duello. Il Risorto è la primizia dei morti, la manifestazione di una nuova umanità senza più lo stigma del peccato. Il suo saluto è la pace, la vera pace, non come la dà il mondo: la pace di Gesù è la pace vera. Non è quindi solo un semplice saluto, ma un modo di essere e di vivere. Il mondo non trova pace, ma ha la sua pace in Cristo e in chi crede in lui: i cristiani sono la pace del mondo, perché vivono la pace di chi li ha redenti a prezzo del suo sangue. E Gesù sta in mezzo a loro non come un fantasma, ma come una presenza viva e reale: parla con loro, mangia con loro, li tocca e li sente. Effonde su di loro il suo spirito, quello che già aveva effuso dalla croce tra le genti. È lo spirito che rinnova profondamente il cuore e dà luce agli occhi. I primi discepoli, quel giorno chiusi nel cenacolo, divengono cooperatori della salvezza: il Risorto dà loro mandato di rimettere i peccati in suo nome. Non è solo la confessione e l’assoluzione, ma un’azione costante di predicazione e testimonianza della verità. Gesù si è caricato di tutti i peccati assieme alla croce e incarica i suoi di fare altrettanto per portare tutti gli uomini a lui, anche coloro che non lo hanno veduto o sentito. Da quel giorno n poi non i sensi, ma la fede è lo strumento di redenzione, perché chi vede un cristiano vede Cristo in persona. Tommaso, detto Didimo, non è con loro e non crede al racconto dei confratelli: vuole vedere, vuole toccare, vuole avere prove scientifiche vagliate dai suoi sensi, pur fallaci. Quando Gesù torna, allora fa la sua professione di fede ed è pronto a testimoniare fino all’effusione del suo sangue quella fede. Il risorto non lo rimprovera, ma gli viene incontro, perché conosce i suoi limiti, che sono i limiti di tutti gli uomini. La fede è un percorso: tutti siamo sulla via della santità. Quando il nostro agire farà in modo che chi ci vede creda in Gesù, ossia che il nostro agire trasformi i tanti tommasi in credenti autentici, allora noi agiremo per conto del Signore. Anche noi siamo cooperatori della salvezza e dobbiamo mostrare le piaghe di Gesù nelle mani e nel costato. Quella è la pace vera, non il desiderio di conoscere con i sensi. Un altro Tommaso ci fa cantare: praestet fides supplementum / sensuum defectui, «non i sensi, ma la fede / provan questa verità». con questo spirito, quindi, la Messa domenicale, il sacrificio di Cristo, è «fons et culmen» della nostra vita, perché ogni domenica è Pasqua.

Copyright testi (C) Federico Cinti 2020
Immagine tratta dal web