Hai lasciato ogni cosa per amore,
spinto dal desiderio del deserto
nella pia solitudine del cuore,
per rendere il tuo spirito più certo
dell’intima presenza del Signore
a cui tutta la vita ti sei offerto
non temendo né re né imperatore,
Antonio, difendendo a viso aperto
la Chiesa, bisognosa del tuo aiuto,
i poveri di Dio, da anacoreta
inflessibile, come sei vissuto
e hai istruito ogni monaco, ogni asceta,
finché, vinto il demonio, ti ha voluto
Gesù con sé nella sua pace lieta.
Casalecchio di Reno (Bologna), 17 gennaio 2019
Il
giorno dopo il mio compleanno, il 17 gennaio, mi piace ricordare una figura
molto interessante del monachesimo antico, Antonio abate (250-356), anacoreta
egiziano che, secondo il precetto di Gesù, per essere perfetto ha venduto tutti
i suoi beni, li ha donati ai poveri e poi ha seguito il Signore nel ritiro
interiore del deserto. E non era povero, come spesso si crede che siano i santi;
anzi, apparteneva a una agiata famiglia di agricoltori di Coma in Egitto. Ma,
divenuto orfano, sentendo sempre più pesante la condizione in cui vive e,
sistemata la sorella presso un monastero di vergini, si ritira nel deserto alla
ricerca di Dio. È proprio nella solitudine devota che trova ciò che cerca. Gli
anni d’eremitaggio non sono stati per lui certo facili, perché sono spesso
lunghi i silenzi di Dio e tante le tentazioni demoniache. Eppure resiste,
ovviamente per amore del primo e unico Maestro, e infine il Signore gli si
manifesta nella sua realtà più vera. Non mancano, tuttavia, anche episodi in
cui ha partecipato alla vita della sua epoca, quell’età di passaggio tra le
persecuzioni dei cristiani e la tolleranza del nuovo culto. A ogni modo, si è
opposto anche a Costantino, scrivendogli una lettera in cui rivendica
l’autonomia dei cristiani rispetto al potere secolare; allo stesso modo,
sostiene il vescovo di Alessandria, Atanasio, nella sua lotta contro
l’arianesimo, l’eresia che infestava pericolosamente allora la cristianità. La
vita di Antonio è molto lunga, perché dura ben 106 anni. Nella sua fase finale
viene aiutato da alcuni monaci e, sul suo esempio, si fondano diversi monasteri
ed eremitaggi. Quando muore santamente, il 17 gennaio 356, le sue spoglie mortali
sono seppellite in un luogo segreto; ma, un paio di secoli dopo (nel 561),
vengono ritrovate e traslate prima ad Alessandria, poi a Costantinopoli e infine
nel secolo XI a Motte-Saint-Didier, in Francia, dove il suo culto si afferma soprattutto
nelle campagne, al punto che la sua iconografia diviene quella di un vecchio
monaco con in mano un pastorale a forma di tau e sempre accompagnato da un
maiale. Quest’ultimo dettaglio deriva dal fatto che a Motte-Saint-Didier cominciano
ad accorrere sempre più molti malati di herpes zoster (nel mondo antico si chiamava ignis sacer, ossia ‘fuoco sacro’) ed è quindi costruito un ospedale per curare i
malati. Ben presto, quindi, la malattia prende anche il nome di fuoco di sant’Antonio
(quando nel 2013 ho avuto l’herpes zoster, infatti, tutti mi dicevano che mi era venuto il ‘fuoco di
sant’Antonio’) e il grasso del maiale veniva impiegato per alleviare il
bruciore dei malati. Dall’iconografia col maiale deriva il fatto che sant’Antonio
abate diventi nelle campagne il protettore degli animali, tanto che ancor oggi
nel suo giorno si benedicono gli animali e le stalle. Insomma, al di là di
tutto, Antonio abate è santo importantissimo per i monaci e nel culto popolare.
Copyright testi(C) Federico Cinti 2019
immagine: Vecchio santino di sant'Antonio abate. Da raccolta privata
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