Spass al mèl ed sta vétta ai ò catè:
l êra l inscartuzères sacc däl fói
arsótti, l êra al spant cavâl crulè.
Mâi savó ed bän, fòra dal mirâcuel
ch’al scòza la divéṅna Indiferänza:
L’êra la stâtuva int la sunulänza
Dal meżdé, e la nóvvla, e al fèlc là só livè.
E. Montale, Spesso il
male di vivere ho incontrato
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
A dirla tutta, poi, la domanda che ci si pone è sempre la stessa: ma come deve essere questa benedetta traduzione, bella e infedele o brutta e fedele? È dai tempi del liceo che sento ripetere la filastrocca del traduttore traditore, perché tanto quello che voleva significare l’originale è difficile da trovare nella traduzione. Eppure è un esercizio che si deve fare; anzi, è l’unico esercizio utile per entrare nel testo veramente, come dice Leopardi. Sarebbe bello conoscere tutte le lingue del mondo per poter godere non solo del significato, ma anche del significante; ma purtroppo, come è ovvio, non è possibile.
Riguardo a queste traduzioni in dialetto bolognese, poi, non è mancato nemmeno chi mi abbia mosso critiche relativamente alla loro utilità. Oh, non è che tutto debba rispondere a un fine preciso: anche il piacere di tradurre e sentire nella lingua della propria città i versi di poesie famosissime ha per me un suo senso. E quindi lo faccio e mi diverto.
Su questo testo in particolare di Eugenio Montale, tuttavia, ammetto una certa difficoltà e diffidenza a partire già dall’amico Federico Galloni, che come sempre mi aiuta nella revisione lessicografica oltre che ortografica. In un primo tempo avevo seguito il suo consiglio di rendere il verso incipitario così: «Al mèl d sta vétta, spas, a l ò catè». Sì, perché la mia resa era difficile in bolognese, perché il dialetto mal sopporta la costruzione oggetto-soggetto-verbo. Mi ero anche convinto, senonché ho pensato che si potesse “tirare” un po’ il dialetto, forte ovviamente dell’originale. Oh, forse verrò redarguito a dovere, ma intanto ci ho provato. Mi è invece piaciuta molto la sua (sempre di Federico ovviamente) proposta di rendere con una metafora un po’ ardita il v. 6, quando Montale dice «che schiude». È il verbo che si usa anche per le uova e, allora, si è pensato a «scuzèr ». insomma, ripeto e mi ripeto, ci si prova.
Altri mi hanno detto, ed è il caso di una compagna di scuola, Valentina, che – diversamente dai precedenti testi resi in vernacolo – questa non le dava lo stesso gusto, lo stesso sapore. Mah… potrebbe anche essere, perché in fondo tutto è sempre così provvisorio, così precario. Io registro tutto, sento tutti e poi cerco anche di condividere, perché prima non sarebbe stato possibile alcuna discussione, prima intendo di aver fatto questa proposta.
Riguardo a queste traduzioni in dialetto bolognese, poi, non è mancato nemmeno chi mi abbia mosso critiche relativamente alla loro utilità. Oh, non è che tutto debba rispondere a un fine preciso: anche il piacere di tradurre e sentire nella lingua della propria città i versi di poesie famosissime ha per me un suo senso. E quindi lo faccio e mi diverto.
Su questo testo in particolare di Eugenio Montale, tuttavia, ammetto una certa difficoltà e diffidenza a partire già dall’amico Federico Galloni, che come sempre mi aiuta nella revisione lessicografica oltre che ortografica. In un primo tempo avevo seguito il suo consiglio di rendere il verso incipitario così: «Al mèl d sta vétta, spas, a l ò catè». Sì, perché la mia resa era difficile in bolognese, perché il dialetto mal sopporta la costruzione oggetto-soggetto-verbo. Mi ero anche convinto, senonché ho pensato che si potesse “tirare” un po’ il dialetto, forte ovviamente dell’originale. Oh, forse verrò redarguito a dovere, ma intanto ci ho provato. Mi è invece piaciuta molto la sua (sempre di Federico ovviamente) proposta di rendere con una metafora un po’ ardita il v. 6, quando Montale dice «che schiude». È il verbo che si usa anche per le uova e, allora, si è pensato a «scuzèr ». insomma, ripeto e mi ripeto, ci si prova.
Altri mi hanno detto, ed è il caso di una compagna di scuola, Valentina, che – diversamente dai precedenti testi resi in vernacolo – questa non le dava lo stesso gusto, lo stesso sapore. Mah… potrebbe anche essere, perché in fondo tutto è sempre così provvisorio, così precario. Io registro tutto, sento tutti e poi cerco anche di condividere, perché prima non sarebbe stato possibile alcuna discussione, prima intendo di aver fatto questa proposta.
Copyright foto e video (C) Federico Cinti 2018
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