LO SPECCHIO DI NARCISO
(Ovidio, Metam. III, 407-475)
Là c’è una fonte limpida dalle onde
lucide come argento tra le sponde
pastore o capra al pascolo sui monti
impervi mai la tocca o le fa affronti,
né altro bestiame o uccello o una smarrita
fiera per caso mai l’ha intorbidita,
neppure un ramo pendulo caduto
da un albero che appresso le è cresciuto.
Quell’acqua pura nutre intorno un prato
e il luogo è fresco, ombroso, riparato
da un fitto bosco in cui furtivo il sole
non filtra mai, nemmeno se lo vuole.
Fiaccato dalla caccia e dall’arsura
di quel giorno tremendo di calura,
Narciso giunge lì, si sdraia in fretta
per riposarsi un poco sull’erbetta,
e si sente ammaliato dalla fonte
d’acqua corrente che gli sta di fronte.
Mentre placa la sete, un’altra sete
nasce in lui sulle onde così quiete
in cui vede un’immagine riflessa
ed estasiato s’innamora d’essa.
Egli ama una bellezza immaginaria
che non ha corpo, umbratile, precaria.
Fissa se stesso attonito in istanti
eterni, fissa chi gli sta davanti,
fissa se stesso sempre, all’infinito,
come una statua, immobile, impietrito.
Disteso a terra fissa il luccicare
dei suoi begli occhi, come stelle rare,
fissa i capelli suoi, degni d’Apollo,
degni di Bacco, fissa il proprio collo
candido come avorio, fissa ancora
le guance lisce, il viso che innamora,
la bocca, il rosa sul suo bel candore
soffuso, lieve, somigliante a un fiore,
e di sé tutto vuole, tutto brama,
tutto, in una parola, tutto egli ama.
Ama, eppure non sa, ama se stesso,
ama come mai prima, si ama adesso.
Ama ed è amato, brucia ed è bruciato,
desidera e così è desiderato.
E bacia quella labile finzione,
abbraccia quella limpida illusione,
ignora quel che vede, e questo è il dramma,
che quel che vede labile lo infiamma.
L’illusione lo affascina, gli inganna
gli occhi, il cuore, e l’illudersi lo danna.
Vuoi afferrare quel che fugge, stolto,
quel che ami, se ti volti, è già dissolto,
vedi dentro uno specchio il tuo riflesso,
venne con te, con lui vai via tu stesso.
Né il bisogno di cibo o di riposo
lo fa meno di sé desideroso.
Sdraiato all’ombra fissa la bellezza
che continua a ingannarlo con dolcezza,
vittima dei suoi occhi innamorati
come mai prima, pure se ingannati.
Poi si rialza il povero infelice
e tendendo le braccia al bosco dice:
«Esiste, selve, amante che ha sofferto
di me più crudelmente? Voi di certo
lo sapete, che date senza indugio
a tanti un po’ di tregua e di rifugio.
Chi si è ridotto a tanto struggimento
simile adesso a me, che vivo a stento?
Io lo vedo e mi piace, e più mi piace
e meno lo raggiungo e perdo pace.
Mi confonde a tal punto questo amore
che sempre più s’accresce il mio dolore,
perché non ci divide terra o mare,
città, bastioni e porte, ma acque chiare!
Lui vorrebbe donarsi, è pronto a farlo,
quando all’acqua m’accosto per baciarlo,
quando allo specchio tendo la mia bocca,
s’accosta pure lui, quasi mi tocca.
Potrei toccarti: un nulla qui davanti
infrange il desiderio di due amanti!
Chiunque tu sia, fanciullo senza eguali,
non illudermi più: so quanto vali!
Rimani qui con me, non mi fuggire,
unico amore mio, o potrei morire.
Dimmi in quali recessi, in quali mondi,
quando vengo a cercarti, ti nascondi.
Perché scompari, quando ti rimiro,
come il labile soffio d’un respiro?
Sono giovane e bello anch’io, lo sai,
e di me molte ninfe innamorai,
senza dar loro un filo di speranza
tant’era tra di noi la lontananza.
ma tu mi doni un segno, un segno amico,
così che spero in me quel che non dico;
quando tendo le braccia, in quel momento,
le tendi pure tu con sentimento;
quando poi ti sorrido, all’improvviso
il tuo volto lampeggia d’un sorriso;
pure tu hai pianto, quando hai visto, un giorno,
che anch’io spandevo lacrime dintorno;
E ti parlo, e mi parli, e la tua voce
rimbomba in me come un silenzio atroce.
Ho capito, purtroppo, ho realizzato
che di me, di me sono innamorato:
su questo specchio d’acqua sta riflesso
l’immagine soltanto di me stesso.
Amo me stesso e da me sono amato,
brucio per me e da me sono bruciato.
Che cosa fare? Imploro? E poi che imploro?
È in me quello che cerco, quel tesoro
che desidero e bramo solamente,
ma che pure sa rendermi impotente.
Se potessi staccarmi da me stesso,
da questo corpo vero qui riflesso.
Voto inaudito, questo, per gli amanti:
stare senza chi si ama e sta davanti.
Non ho più forze, adesso, ora la morte
a me aprirà benigna le sue porte,
mi toglierà per sempre il mio dolore,
nato dal seme nobile d’amore.
Solo vorrei che lui potesse ancora
vivere fino all’ultima sua ora,
anche se siamo uniti, stretti insieme
e moriremo, mentre il cuore geme,
perché uno solo è il battere, uno solo
l’amore che ci spinge a questo volo».
Così dice, poi torna a rimirare
quella bellezza che non può toccare,
e piange, e quell’immagine va via
senza di sé lasciare alcuna scia.
Copyright testo e traduzione (C) Federico Cinti
Immagine: Michelangelo Merisi da Caravaggio, Narciso (1594-1596). Roma, Galleria nazionale d'arte antica. Wikipedia
Nessun commento:
Posta un commento