nell’anima di un’epoca del cuore
lontana ormai, di dolci cose buone
di cui non si sa più, per cui si muore
di nostalgia, di trepida emozione
tra gli stanchi ventricoli del cuore,
nell’azzurro in cui vola l’aquilone
della mia fantasia, simile a un fiore
fuggito anch’esso non si sa più dove,
non si sa come, sulle trite note
del vento, della pioggia quando piove,
per le vie solitarie, ombrose, vuote,
mentre anch’io volo, già mi sento altrove,
assieme a perse immagini remote.
Casalecchio di Reno (Bologna), 23 maggio 2018
Mi avevano invitato, qualche tempo fa, a inaugurare la personale di Clarissa Falcone, un'ottima pittrice che, purtroppo, da non molti anni è mancata, lasciandoci tuttavia un vero e proprio tesoro artistico. Assieme a me vi era un'eccellente chitarrista, Galia Mastromatteo, e quindi è come se le varie arti dialogassero tra loro in modo mirabile, ma soprattutto naturale, come sempre sarebbe auspicabile che fosse. Tra le varie poesie che ho letto (di Palazzeschi, di Montale, di Quasimodo), non ho potuto non leggere "L'aquilone" di Giovanni Pascoli. E la mia sorpresa è stata grande quando mi sono accorto che molti, sottovoce, la ripetevano assieme a me; addirittura diverse persone mi hanno ringraziato quasi commosse per aver fatto rivivere loro un po' della loro infanzia, quando ancora a scuola s'imparavano a memoria alcune poesie. E non è un esercizio sterile o semplicemente mnemonico; anzi, è acquisire un patrimonio che mai verrà tolto, «un possesso per sempre» per citare lo storico greco Tucidide, anche se costui parlava della storia. Beh, sì, in fondo è poi la storia personale di ciascuno di noi. Ecco, questo è uno dei motivi per cui mi è piaciuto riproporla nella mia lettura. Sì, lo so che Leonardo Ventura, il mio amico ed ex-studente attore, bontà sua, mi farà le pulci, perché in lui vive ancora una sorta di rivalsa per l'inversione dei ruoli (oh, intendiamoci, solo in questo caso), ma fa lo stesso, perché la poesia in questione è capace ancora e sempre di commuovermi, e non solo me a quanto pare. Non so, mi è venuto naturale citare Giovannino Guareschi in quel «poesia, solo poesia», espressione che usa in un racconto, intitolato "Menelik" e appartenente a "Don Camillo e il suo gregge" (Milano, 1953). Già, la sua riflessione mi pare che valga anche per "L'aquilone", non solo per la "Cavalla storna", che cita nel suddetto racconto (anche Menelik infatti è il cavallo fedelissimo e protagonista del racconto). Guareschi così scrive, in conclusione di "Menelik": «Menelik era nero come la notte e immobile come fosse di pietra. Ad un tratto nitrì e, più che un nitrito, pareva un singhiozzo. Ma era poesia, solo poesia e don Camillo scoppiò a piangere come s'era messo a piangere quando, ragazzo, aveva letto l'ultimo verso della Cavallina storna. Poesia, solo poesia». Ecco, questo racconto in cui si parla della fedeltà assoluta del cavallo Menelik tutte le volte che lo leggo mi fa piangere... invito ad andarlo a leggere, perché è di una delicatezza che solo Guareschi può avere. Già, la "Cavalla storna": prima o poi bisogna che io legga pure questa poesia.
Copyright testi e video (C) Federico Cinti 2018
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