venerdì 17 agosto 2018

Con me porto ogni mia cosa



L’UNNO, il povero e misero abitante
del Ponto della Scizia, ha le sue membra
inaridite dal perenne gelo:
l’abbondanza di Cerere gli è ignota,
gli sono ignoti i doni di Lieo,
ha nondimeno drappi di valore,
perché è avvolto di pelli d’ermellino
in ogni parte, mostra solo gli occhi,
mentre è tutto bardato per il resto.
Così non teme ladro, non si cura
del vento e della pioggia, ma è sicuro
alla presenza d’uomini e di dei.
Casalecchio di Reno (Bologna), 17 agosto 2018


In un’epoca in cui tutto è superficie, senza quindi profondità reale, ma virtuale, frutto spesso di un’immaginazione altrui, lo spazio di riflessione e di meditazione relativamente a quel che ci circonda e a quel che siamo s’assottiglia sempre più. È come se, a poco a poco, stessimo a tal punto delegando la nostra interiorità che tra breve non ci apparterrà più, in un processo di dematerializzazione che porta a una sottrazione del nostro essere fino al nostro totale annichilimento. Si pensa, si crede, ma in modo illusorio, di avere a portata di mano ogni cosa; eppure, tutto è dietro un vetro che si può solo toccare nella sua parte esterna. E il tesoro del nostro forziere s’impoverisce senza quasi che noi ce n’accorgiamo, rimanendo un bell’involucro vuoto. Ecco, rimane il vuoto, rimane ciò che non c’è, nel più completo paradosso di un’assenza che si fa unica presenza dei nostri giorni. Bisogna forse imparare di nuovo a portarsi con sé ogni nostra cosa, come già sosteneva Cicerone (Paradoxa Stoicorum, I, 1, 8), quando narra di Biante di Briene, uno dei sette sapienti, che in fuga dalla città conquistata dai nemici, diceva a uno che gli consigliava di portar via quanto gli era più prezioso: «omnia bona mea mecum porto», e Seneca (De constantia sapientis, 5, 6-7), quando riportando la notizia della presa di Megara da parte di Demetrio Poliorcete racconta del filosofo Stilpone che, pur avendo perso tutto, dichiarava al generale di non aver perduto nulla, perché «omnia mea mecum sunt». Nel caso degli antichi era la virtus la dote dei saggi che rendeva invulnerabili e non manipolabili dal mondo al di fuori di noi. Anche Alciato propone una figura emblematica di saggezza, quella dell’unno, un barbaro nomade, che non conosce beni materiali più preziosi di quel che porta addosso, invulnerabile così agli uomini e agli agenti atmosferici, a dire in fondo che ognuno di noi può percorrere la strada giusta verso la costruzione di se stesso. Di seguito, il testo originale dell’Emblema XXXVII di Alciato, da cui ho tratto la traduzione qui proposta: 
 
OMNIA MEA MECUM PORTO

HUNNUS inops, Scythicique miserrimus accola Ponti,
Ustus perpetuo livida membra gelu:
Qui Cereris non novit opes, nec dona Lyaei,
Et pretiosa tamen stragula semper habet.
Nam murinae illum perstringunt undique pelles:
Lumina sola patent, caetera opertus agit.
Sic furem haud metuit, sic ventos temnit & imbres;
Tutus apudque viros, tutus apudque Deos.

E del resto anche san Paolo sostiene che tutto ciò di cui abbiamo bisogno per la santità è in noi e si concretizza nel rapporto con l’altro in cui si specchia la figura di Cristo. Non abbiamo bisogno del superfluo, ma di noi e di Dio, unico nostro vero bene. 

Copyright (C) Federico Cinti 2018 
Immagine:http://www.emblems.arts.gla.ac.uk/alciato/emblem.php?id=A91a037


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