L’UNNO, il povero
e misero abitante
del Ponto della
Scizia, ha le sue membra
inaridite dal
perenne gelo:
l’abbondanza di
Cerere gli è ignota,
gli sono ignoti i
doni di Lieo,
ha nondimeno drappi
di valore,
perché è avvolto
di pelli d’ermellino
in ogni parte, mostra
solo gli occhi,
mentre è tutto
bardato per il resto.
Così non teme
ladro, non si cura
del vento e della pioggia,
ma è sicuro
alla presenza d’uomini
e di dei.
Casalecchio di Reno (Bologna), 17 agosto 2018
In un’epoca in cui tutto è superficie,
senza quindi profondità reale, ma virtuale, frutto spesso di un’immaginazione
altrui, lo spazio di riflessione e di meditazione relativamente a quel che ci
circonda e a quel che siamo s’assottiglia sempre più. È come se, a poco a poco,
stessimo a tal punto delegando la nostra interiorità che tra breve non ci
apparterrà più, in un processo di dematerializzazione che porta a una
sottrazione del nostro essere fino al nostro totale annichilimento. Si pensa,
si crede, ma in modo illusorio, di avere a portata di mano ogni cosa; eppure,
tutto è dietro un vetro che si può solo toccare nella sua parte esterna. E il
tesoro del nostro forziere s’impoverisce senza quasi che noi ce n’accorgiamo,
rimanendo un bell’involucro vuoto. Ecco, rimane il vuoto, rimane ciò che non
c’è, nel più completo paradosso di un’assenza che si fa unica presenza dei
nostri giorni. Bisogna forse imparare di nuovo a portarsi con sé ogni nostra cosa,
come già sosteneva Cicerone (Paradoxa
Stoicorum, I, 1, 8), quando narra di
Biante di Briene, uno dei sette sapienti, che in fuga dalla città conquistata
dai nemici, diceva a uno che gli consigliava di portar via quanto gli era più
prezioso: «omnia bona mea mecum porto», e Seneca (De constantia sapientis, 5, 6-7), quando riportando la notizia
della presa di Megara da parte di Demetrio Poliorcete racconta del filosofo
Stilpone che, pur avendo perso tutto, dichiarava al generale di non aver perduto
nulla, perché «omnia mea mecum sunt». Nel caso degli antichi era la virtus la dote dei saggi che rendeva invulnerabili
e non manipolabili dal mondo al di fuori di noi. Anche Alciato propone una
figura emblematica di saggezza, quella dell’unno, un barbaro nomade, che non
conosce beni materiali più preziosi di quel che porta addosso, invulnerabile
così agli uomini e agli agenti atmosferici, a dire in fondo che ognuno di noi
può percorrere la strada giusta verso la costruzione di se stesso. Di seguito,
il testo originale dell’Emblema XXXVII
di Alciato, da cui ho tratto la traduzione qui proposta:
OMNIA MEA MECUM
PORTO
HUNNUS inops,
Scythicique miserrimus accola Ponti,
Ustus perpetuo
livida membra gelu:
Qui Cereris non
novit opes, nec dona Lyaei,
Et pretiosa tamen stragula
semper habet.
Nam murinae illum
perstringunt undique pelles:
Lumina sola
patent, caetera opertus agit.
Sic furem haud
metuit, sic ventos temnit & imbres;
Tutus apudque
viros, tutus apudque Deos.
E del resto anche san Paolo sostiene che
tutto ciò di cui abbiamo bisogno per la santità è in noi e si concretizza nel
rapporto con l’altro in cui si specchia la figura di Cristo. Non abbiamo
bisogno del superfluo, ma di noi e di Dio, unico nostro vero bene.
Copyright
(C) Federico Cinti 2018
Immagine:http://www.emblems.arts.gla.ac.uk/alciato/emblem.php?id=A91a037
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