giovedì 1 febbraio 2018

ZÎG ANTÎG, la mia versione bolognese


L âlber ch’tant at piaṡêva
con la manéṅna d sgnèr,
al bel vaird mailgranèr
dai fiûr róss ed culåur,


l à méss adès la fójja
int l ôrt mótt sulitèri
e żóggn int al lunèri
ai dà lûṡ e calåur.

Té, fiåur ed sta mî pianta
pâsa, che ala basåura
d sta vétta andè in malåura
l ûltum, sé, l ûltum fiåur,

t î int la tèra fradda,
t î int la tèra scûra,
al såul l é una lûṡ bûra
e an t dṡàṡṡda pió l amåur.






Pianto antico

L'albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
da’ bei vermigli fior,

nel muto orto solingo
rinverdí tutto or ora
e giugno lo ristora
di luce e di calor.

Tu fior de la mia pianta
percossa e inaridita,
tu de l’inutil vita
estremo unico fior,

sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra;
né il sol piú ti rallegra
né ti risveglia amor.

Giosue Carducci

Ogni volta che ripeto a memoria questa breve, eppure così dura nel contenuto, anacreontica di Carducci, mi torna alla memoria il mio amico Gianluca, che la ripeteva nel giardino sotto casa. Già, perché era la sua poesia, quella che portava all'esame di quinta elementare. Io portavo la "Vergine cuccia" di Parini, un pezzo abbastanza complicato preso dal "Meriggio" che propongo (o impongo) tuttora ai miei studenti di liceo (oh, è colpa della mia maestra che mi ha fatto amare la poesia!), e ne andavo anche molto fiero. Insomma, a furia di sentirlo ripetere, imparai anche io "Pianto antico" e adesso me lo porto dietro, come mio piccolo patrimonio personale. Ecco, allora, che quando abbiamo cominciato a stilare il canone del "Parnaso bulgnaiṡ" (Pendragon, Bologna 2015) non ho potuto non proporne una mia traduzione. Poi, con chi parlo parlo scopro che tutti la sanno e, nel ripeterla, facciamo a gara per dirla insieme. Eh, certo che la poesia ha davvero una potenza evocativa incredibile e riapre squarci nella memoria che quasi sfociano nella malinconia (nella nostalgia di sicuro).

Per me, in fondo, ogni lirica è uno spartito musicale, che pretende di essere eseguito a voce alta, con la miglior dizione possibile (certo, mi frega un po' il rotacismo, ma è uno dei tratti più tipici che ho ereditato da mio padre e non vi rinuncerei per nulla al mondo). Il resto viene poi da sé, come un mondo che si ricostruisce ogni volta nell'anima. Quando passo per via Broccaindosso, dove per altro è nato mio padre, non posso fare a meno di fermarmi al civico 20 e pensare che lì, dietro la porta e le finestre, c'è il famoso "muto orto solingo" con il "melograno/ dai bei vermigli fior". Sì, si legge da una lapide che da quelle finestre il Carducci (Giosue, per carità, sdrucciolo, mica tronco, come voleva il vate) aveva lanciato i suoi "Giambi ed epodi"; ma non si può non ricordare quei "bei vermigli fior" che sono sempre così, anche d'inverno, anche adesso che mi dicono che "l'albero" è morto o è stato tagliato. Non so, in quegli angoli di Bologna s'annida un po' quel "desiderio vano della bellezza antica", come dice sempre Carducci ("Nella piazza di San Petronio", 20).

Mi sia permessa una piccola aggiunta, una sorta di "post scriptum" un po' dovuta, ma anche in quest'occasione non posso che ringraziare Carlo, il mio studente, che con pazienza e dedizione mi ha supportato nella realizzazione del video. Già, perché la tecnologia sembra immediata e intuitiva per tutti, ma poi ci si deve scontrare con mille barriere, tra cui quella del non potersi ritrarre da soli in modo decente. E, credetemi, non è cosa da poco nell'epoca più immaginifica della storia.

Copyright testi e video (C) Federico Cinti





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