mercoledì 6 giugno 2018

Il giorno di Orazio

Orazio, Carmina, I, 11.

Non chiedere, sacrilego è sapere,
che fine a me e a te diedero gli dèi,
Leuconoe, e non tentare i babilonici
Calcoli. Come è meglio sopportare
tutto ciò che sarà, sia se più inverni
conceda Giove o l’ultimo sia questo
che tra opposte scogliere fiacca il mare
Tirreno. Sii sapiente, filtra il vino
e ogni lunga speranza al tempo breve
taglia. Mentre parliamo è già fuggita
l'età invidiosa: cògli ogni giornata,
senza dare alcun credito al domani.



Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati.
Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem quam minimum credula postero.






Non c'è nulla da fare: quest'ode di Orazio, l'undicesima del primo libro, proprio non mi dà pace. Ogni volta che la leggo, scopro qualche cosa di nuovo, una sfumatura, un dettaglio, anche solo un suono evocativo, che non avevo notato prima. Certo, qualcuno mi dirà che è la prerogativa dei classici quella di essere più attuali del giornale di oggi, che in effetti parla o racconta ciò che è avvenuto ieri. Ma che ci posso fare? C'è una ciclicità nell'insegnamento, che in fondo è come il passaggio di testimone: quando si sono scoperti tesori di questo genere, come si fa a non aver desiderio di farli scoprire e condividerli con i propri compagni di viaggio? Già, perché gli studenti sono miei compagni di viaggio e anche loro hanno spesso da insegnarmi molte cose. Non dico nulla di nuovo, dato che già lo ha detto mirabilmente Seneca: «homines dum docent discunt» ("gli uomini mentre insegnano imparano"). A scuola è verissimo: docenti e studenti si trovano nello stesso luogo per imparare e insegnare contemporaneamente. Anche Orazio, il nostro Quinto Orazio Flacco, che nell'"Epistola" I, 4 si definisce un porco del gregge di Epicuro, in quest'ode - e in molte altre - si pone come un maestro, un grande maestro di vita. Qui parla con un personaggio di cui nulla sa, perché in fondo siamo tutti noi: in quel nome parlante, "Leuconoe", che significa persona "dalla mente chiara" sta chiunque sia in grado di capire, di essere saggio, di non chiedere agli oracoli divini o agli oroscopi babilonesi il futuro. Bisogna vivere oggi, con le gioie del presente, senza pensare al domani. Lo ribadisce bene in chiusa, quando afferma risoluto: «carpe diem», cogli con forza il giorno, l'oggi, il presente. Certo, a molti piace tradurre "cogli l'attimo", magari "fuggente" come nel famoso film interpretato da Robin Williams. Ma non è proprio così, non è proprio la stessa cosa, perché la concezione oraziana è un po' diversa. Ogni giorno che si ha in più, ogni giorno che si riesce a strappare al fato e al computo dei giorni donati dalla fortuna va ritenuto un guadagno, va posto nel novero dei crediti. E bisogna gioire di questo, assieme all'amore e al vino, finché passino tutti gli inverni della nostra vita. Ecco perché mi piace rendere in modo preciso "cogli (con forza) la giornata". Il verbo «carpere» è il verbo tecnico del raccogliere i frutti: ogni giorno che strappiamo al fato è un guadagno che frutta alla nostra vita.

Copyright (C) Federico Cinti 2018
Immagini: Una meridiana con l'iscrizione Carpe diem, Dimitri N. (DimiTalen, DimiCalifornia) - Opera propria, Wikipedia; Statue d'Horace à Venose (Italie), Wikipedia

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