mercoledì 13 giugno 2018

Lo specchio di Narciso

Lo specchio, sì, lo specchio mi ossessiona: mi ci trovo immerso senza nemmeno accorgermene, ci sono dentro come se io vi fossi imprigionato, alla rovescia. Eppure è un'azione banale quella di guardarsi, pettinarsi, farsi la barba, almeno per chi ci vede. Ora non mi vedo più, ma lo specchio mi riflette lo stesso, imprigiona la mia immagine anche senza il mio consenso, a mia insaputa. Lo specchio, accidenti, è simile a una gabbia priva di sbarre, priva di catene, circondata dai suoi angusti limiti da cui, a un certo punto, si scompare impercettibilmente. I limiti, ecco, un'altra delle mie ossessioni: i limiti del nostro io riflessi nello specchio, una superficie, un sipario che sembra non esistere eppure c'è, è lì, ci separa, ci divide, ci attrae e ci inganna, con la sua anima - posso chiamarla così? - d'argento, proprio come canta acutamente Ovidio, nelle sue "Metamorfosi" (libro III), quando dice che Narciso s'avvicina a una fonte purissima, di cristallo, dalle acque argentee. Già, probabilmente anch'egli pensava allo specchio. Certo, uno specchio d'acque, ma pur sempre uno specchio, anche perché la metafora apre arcani mondi mettendoli in correlazione tra loro. E Narciso si riposa, dopo un giorno di caccia, ignaro della profezia del veggente Tiresia, secondo cui Narciso sarebbe sopravvissuto finché non avesse conosciuto se stesso. Ma che significa, poi, conoscere se stesso? E Narciso, per l'arsura e la fatica d'un giorno estivo, si protende all'acqua viva per bere, mentre un'altra sete comincia a divorarlo, la sete dell'amore per la creatura che vede e non conosce, la creatura più bella che egli abbia mai visto da quando è nato. Tutto quello che l'immagine di fronte a lui fa assomiglia a ciò che fa lui: ride, piange, lo bacia, lo abbraccia, ma tutto è illusorio, tutto è riflesso. Ma poi capisce, capisce d'essere lui il soggetto e l'oggetto  dell'amore, chi guarda e chi è guardato, chi brucia ed è bruciato. E così si genera il dramma: non esiste altro che un'immagine di noi stessi che non esiste, perché la vediamo solo noi. E l'acqua scorre liquida, come i cristalli liquidi del display del nostro cellulare, quel piccolo specchio in cui si riflette tutto il mondo globalizzato, e pure noi stessi, e in cui rischiamo d'annegare come Narciso, smarrendoci (o perdendoci) per sempre. Soprattutto nel mondo delle immagini, di Facebook, rischiamo di essere ammaliati nel nostro viaggio attraverso uno specchio d'acqua che ci trascina lungo la corrente senza che noi opponiamo resistenza, come tanti ignari navigatori che seguono il canto delle Sirene che il solo Ulisse riuscì ad ascoltare senza morire, perché è la poesia che lo salva, è il mito che parla di lui, come tutti i classici parlano a noi di noi. E Narciso ci indica la via d'un viaggio all'interno di quello specchio, ma è un viaggio senza ritorno tra le onde di un mare senza limiti e senza sponde. Il nostro mare, oggi, sono i cristalli liquidi che anestetizzano la nostra coscienza, facendoci credere che il reale non esista, perché è solo una proiezione del modo in cui noi vediamo le cose. Ma il mondo c'è, è vero e tangibile, la natura ci avvolge e ci sostiene, anche se noi non vogliamo. E Narciso ci ammonisce nell'abuso dello specchio virtuale, perché oggi non c'è più metamorfosi, mutamento, ma c'è solo annullamento.


LO SPECCHIO DI NARCISO
(Ovidio, Metam. III, 407-475)


Là c’è una fonte limpida dalle onde
lucide come argento tra le sponde


pastore o capra al pascolo sui monti
impervi mai la tocca o le fa affronti,


né altro bestiame o uccello o una smarrita
fiera per caso mai l’ha intorbidita,


neppure un ramo pendulo caduto
da un albero che appresso le è cresciuto. 


Quell’acqua pura nutre intorno un prato
e il luogo è fresco, ombroso, riparato


da un fitto bosco in cui furtivo il sole
non filtra mai, nemmeno se lo vuole.


Fiaccato dalla caccia e dall’arsura
di quel giorno tremendo di calura,


Narciso giunge lì, si sdraia in fretta
per riposarsi un poco sull’erbetta,


e si sente ammaliato dalla fonte
d’acqua corrente che gli sta di fronte.


Mentre placa la sete, un’altra sete
nasce in lui sulle onde così quiete


in cui vede un’immagine riflessa
ed estasiato s’innamora d’essa.


Egli ama una bellezza immaginaria
che non ha corpo, umbratile, precaria.


Fissa se stesso attonito in istanti
eterni, fissa chi gli sta davanti,


fissa se stesso sempre, all’infinito,
come una statua, immobile, impietrito.


Disteso a terra fissa il luccicare
dei suoi begli occhi, come stelle rare,


fissa i capelli suoi, degni d’Apollo,
degni di Bacco, fissa il proprio collo


candido come avorio, fissa ancora
le guance lisce, il viso che innamora,


la bocca, il rosa sul suo bel candore
soffuso, lieve, somigliante a un fiore,


e di sé tutto vuole, tutto brama,
tutto, in una parola, tutto egli ama.


Ama, eppure non sa, ama se stesso,
ama come mai prima, si ama adesso.


Ama ed è amato, brucia ed è bruciato,
desidera e così è desiderato.


E bacia quella labile finzione,
abbraccia quella limpida illusione,


ignora quel che vede, e questo  è il dramma,
che quel che vede labile lo infiamma.


L’illusione lo affascina, gli inganna
gli occhi, il cuore, e l’illudersi lo danna.


Vuoi afferrare quel che fugge, stolto,
quel che ami, se ti volti, è già dissolto,


vedi dentro uno specchio il tuo riflesso,
venne con te, con lui vai via tu stesso.


Né il bisogno di cibo o di riposo
lo fa meno di sé desideroso.


Sdraiato all’ombra fissa la bellezza
che continua a ingannarlo con dolcezza,


vittima dei suoi occhi innamorati
come mai prima, pure se ingannati.


Poi si rialza il povero infelice
e tendendo le braccia al bosco dice:


«Esiste, selve, amante che ha sofferto
di me più crudelmente? Voi di certo


lo sapete, che date senza indugio
a tanti un po’ di tregua e di rifugio.


Chi si è ridotto a tanto struggimento
simile adesso a me, che vivo a stento?


Io lo vedo e mi piace, e più mi piace
e meno lo raggiungo e perdo pace. 


Mi confonde a tal punto questo amore
che sempre più s’accresce il mio dolore,


perché non ci divide terra o mare,
città, bastioni e porte, ma acque chiare!


Lui vorrebbe donarsi, è pronto a farlo,
quando all’acqua m’accosto per baciarlo,


quando allo specchio tendo la mia bocca,
s’accosta pure lui, quasi mi tocca.


Potrei toccarti: un nulla qui davanti
infrange il desiderio di due amanti!


Chiunque tu sia, fanciullo senza eguali,
non illudermi più: so quanto vali!


Rimani qui con me, non mi fuggire,
unico amore mio, o potrei morire.


Dimmi in quali recessi, in quali mondi,
quando vengo a cercarti, ti nascondi.


Perché scompari, quando ti rimiro,
come il labile soffio d’un respiro?


Sono giovane e bello anch’io, lo sai,
e di me molte ninfe innamorai,


senza dar loro un filo di speranza
tant’era tra di noi la lontananza.


ma tu mi doni un segno, un segno amico,
così che spero in me quel che non dico;


quando tendo le braccia, in quel momento,
le tendi pure tu con sentimento;


quando poi ti sorrido, all’improvviso
il tuo volto lampeggia d’un sorriso;


pure tu hai pianto, quando hai visto, un giorno,
che anch’io spandevo lacrime dintorno;


E ti parlo, e mi parli, e la tua voce
rimbomba in me come un silenzio atroce.


Ho capito, purtroppo, ho realizzato
che di me, di me sono innamorato:


su questo specchio d’acqua sta riflesso
l’immagine soltanto di me stesso.


Amo me stesso e da me sono amato,
brucio per me e da me sono bruciato.


Che cosa fare? Imploro? E poi che imploro?
È in me quello che cerco, quel tesoro


che desidero e bramo solamente,
ma che pure sa rendermi impotente.


Se potessi staccarmi da me stesso,
da questo corpo vero qui riflesso.


Voto inaudito, questo, per gli amanti:
stare senza chi si ama e sta davanti.


Non ho più forze, adesso, ora la morte
a me aprirà benigna le sue porte,


mi toglierà per sempre il mio dolore,
nato dal seme nobile d’amore.


Solo vorrei che lui potesse ancora
vivere fino all’ultima sua ora,


anche se siamo uniti, stretti insieme
e moriremo, mentre il cuore geme,


perché uno solo è il battere, uno solo
l’amore che ci spinge a questo volo».


Così dice, poi torna a rimirare
quella bellezza che non può toccare,


e piange, e quell’immagine va via
senza di sé lasciare alcuna scia.






Copyright testo e traduzione (C) Federico Cinti
Immagine: Michelangelo Merisi da Caravaggio, Narciso (1594-1596). Roma, Galleria nazionale d'arte antica. Wikipedia

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